Guerre, punto – Nel Mondo di Trump, altro che paci: scoppiano nuove guerre. Israele s’avvia a occupare la Striscia di Gaza e allarga il raggio d’azione, colpendo con estrema durezza lo Yemen, a duemila chilometri dai suoi confini, e tornando a bombardare in Libano e in Siria. E gli incidenti di frontiera tra India e Pakistan creano allarme, per le tensioni mai sopite fra due Paesi entrambi dotati di armi nucleari.
In Ucraina, ci si deve accontentare della tregua di tre giorni proclamata dalla Russia in coincidenza con la parata sulla Piazza Rossa il 9 maggio, 80° anniversario della Vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, che per i russi è la Grande Guerra Patriottica. 36 ore a Pasqua, tre giorni adesso: una pace a bocconi, senza nessuna garanzia.
Segnali di distensione vengono dall’unico conflitto incruento fra i tanti che punteggiano il Trump 2: quello commerciale. Nel fine settimana, a Ginevra, in Svizzera, ci saranno negoziati tra Usa e Cina. E’ la prima vera trattativa fra i due Paesi, da quando il presidente Usa Donald Trump ha innescato un’escalation di dazi: attualmente sono del 145% sull’export cinese verso gli Stati Uniti e del 125% sull’export Usa verso la Cina, con eccezioni settoriali.
La delegazione statunitense sarà guidata dal segretario al Tesoro Scott Bessent e dal responsabile del commercio internazionale Jamieson Greer. Nell’analisi del Washington Post, le conversazioni “mirano a raffreddare le tensioni, dopo che entrambe le parti, avvertendo l’impatto dei super-dazi reciprocamente imposti, hanno ammorbidito la loro retorica”.
L’inizio della settimana è stato devastante, in mancanza dei richiami alla pace costantemente venuti da Papa Francesco. Con il contributo degli Stati Uniti, Israele ha condotto per due giorni consecutivi attacchi sullo Yemen, dopo che un missile degli Huthi, eccezionalmente non intercettato dalla difesa aerea israeliana, aveva raggiunto l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
Contestualmente Israele ha approvato e annunciato un piano dal nome biblico, ‘I carri di Gedeone’, per prendere il controllo di ampie aree della Striscia di Gaza e restarvi a tempo indeterminato, costringendo di nuovo all’esodo dentro la Striscia centinaia di migliaia di palestinesi, che soffrono della lesina degli aiuti umanitari internazionali.
Progetti e comportamenti israeliani suscitano ovunque nel Mondo proteste, ma il premier israeliano Benjamin Netanyahu va avanti, forte del sostegno del suo sodale Usa Trump, che, dal canto suo, annuncia la capitolazione degli Huthi: i ribelli sciiti yemeniti, sostenuti dall’Iran, si sarebbero impegnati a non attaccare più navi Usa in navigazione da e per il Mar Rosso, ma non a sospendere gli attacchi su Israele fin quando la guerra a Gaza continuerà.
Un focolaio di crisi inquietante e difficile da controllare è anche quello tra India e Pakistan, con tiri di missili e d’artiglieria reciproci e vittime civili dichiarate da entrambe le parti, lungo la cosiddetta Linea di Controllo, in un’area del Kashmir sotto controllo pachistano, ma reclamata dall’India (vale pure il viceversa). New Delhi sostiene di avere attaccato nove presunte basi terroristiche, il Pakistan riferisce di cinque siti colpiti e preconizza risposte immediatamente arrivate. La fiammata violenta fa seguito a un attacco contro turisti nell’area del Kashmir controllata dall’India che, a fine aprile, fece decine di vittime. Gli appelli alla moderazione si moltiplicano, ma la situazione resta incandescente.
Guerre, punto: MO, Netanyahu non si ferma più, Trump in arrivo nella Regione
Il piano di Israele di occupare a tempo indeterminato buona parte della Striscia di Gaza, una vera e propria ‘riconquista’ del territorio, che comporta l’ennesima migrazione interna e, in prospettiva, l’espulsione dei palestinesi, e il rialzo di tensione nella Regione, dopo gli attacchi “su larga scala”, lunedì e martedì, sullo Yemen, compiuti da Israele “in coordinamento con gli Stati Uniti”, complicano le prospettive della missione in Medio Oriente del presidente Trump, che intende visitare la prossima settimana Arabia saudita e Paesi del Golfo.
L’obiettivo di Israele nella Striscia è di occuparne in forze larga parte, per eradicarne Hamas e distruggere i tunnel costruiti dall’organizzazione terroristica.
Invece, gli attacchi aerei sullo Yemen sono stati una risposta all’attacco missilistico di domenica degli Huthi sull’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv e ad altri attacchi precedenti (tutti sventati). Secondo l’esercito israeliano, le operazioni condotte da una ventina di caccia bombardieri miravano alle infrastrutture degli Huthi lungo la costa dello Yemen, tra cui il porto di Hodeida e una fabbrica di cemento nei pressi della città di Bajil – obiettivi a circa 2000 chilometri dal territorio israeliano -. Poche ore dopo, Israele annunciava di avere poi “messo del tutto fuori uso” il principale aeroporto yemenita.
Secondo le fonti israeliane, il porto di Hodeidah è usato dagli Huthi “per il trasferimento di armi ed equipaggiamenti militari provenienti dall’Iran e per altri scopi terroristici”. La fabbrica di cemento di Bajil “rappresenta un’importante risorsa economica per l’organizzazione terroristica degli Huthi ed è utilizzata per costruire tunnel e infrastrutture militari”. Sempre secondo le fonti israeliane, l’azione della scorsa notte “rappresenta un duro colpo per l’economia degli Huthi e per il loro rafforzamento militare”.
C’erano già stati altri attacchi israeliani sullo Yemen dall’inizio della guerra, cioè da 19 mesi in qua, ma questi sono stati i primi da gennaio: Israele aveva smesso di rispondere ai tiri di missili e droni degli Huthi perché gli Usa, talora in coordinamento con la Gran Bretagna, avevano lanciato a marzo una massiccia campagna aerea contro il gruppo di insorti sostenuto dall’Iran.
Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres è “allarmato” dal piano di “conquista” di Gaza. Secondo il portavoce del Palazzo di Vetro Farhan Haq, “i piani israeliani di espandere le operazioni di terra e di prolungare la presenza militare a Gaza porteranno inevitabilmente a innumerevoli altre morti civili e a ulteriore distruzione nella Striscia”. Il portavoce ha ribadito che, per l’Onu, Gaza è “parte integrante di un futuro Stato palestinese”. Ue, Gran Bretagna, Francia, Italia, Cina, molti altri Paesi giudicano “inaccettabili” i progetti israeliani.
Dall’inizio della settimana, l’aeronautica israeliana ha anche attaccato obiettivi di Hezbollah presso il villaggio di Janta, nella regione della Bekaa, nell’Est del Libano, vicino al confine con la Siria. E’ l’ennesima conferma dell’espansione delle operazioni militari da parte israeliana, che relega la sorte degli ostaggi tuttora detenuti nella Striscia a “danni collaterali” e che risponde a logiche interne di sopravvivenza politica del governo Netanyahu e dello stesso premier.
Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, esponente dell’ultra-destra religiosa, prevede che “tra qualche mese potremo chiaramente dichiarare: abbiamo vinto”. E sui social esulta perché “per la prima volta si parla senza imbarazzo di conquista di Gaza”. Ma gli analisti di Ynet vedono ancora spiragli per una trattativa, in funzione dei contatti che Trump avrà in Qatar: il presidente Usa farà pressione perché Doha convinca il leader di Hamas Muhammad Sinwar a rilasciare gli ostaggi e a sciogliere il gruppo islamista, in cambio di una cessazione delle ostilità – ma resta il nodo dell’assetto della Striscia -.
In base alle informazioni di intelligence fornitegli, Trump ritiene che gli ostaggi superstiti siano 21, dei 59 tuttora non restituiti alle loro famiglie. I raid terroristici condotti da Hamas e altre sigle palestinesi in territorio israeliano il 7 ottobre 2023 fecero 1200 vittime, con la cattura di oltre 250 ostaggi. La guerra scaturitane ha fatto oltre 51 mila vittime palestinesi, soprattutto civili, bambini, donne, anziani, e alcune centinaia di caduti fra i militari israeliani.
Tutte queste fredde considerazioni politiche, militari e diplomatiche prescindono dalla spaventosa situazione umanitaria nella Striscia, dove il flusso degli aiuti di base, viveri e medicinali, è interrotto da oltre due mesi e dove centinaia di migliaia di persone sono ridotte allo stremo.
Guerre, punto: Ucraina, accordo su risorse minerarie non innesca cessate-il-fuoco
La firma, all’inizio del mese, dell’accordo fra Usa e Ucraina per lo sviluppo e lo sfruttamento delle risorse minerarie ucraine viene interpretato come un frutto del colloquio in San Pietro, il giorno dei funerali del Papa, fra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e accende la speranza di ulteriori sviluppi positivi.
Ma, in realtà, nulla di decisivo è accaduto nei giorni immediatamente successivi, anche se l’attività sul fronte appare sotto-traccia (ma i bombardamenti notturni sulle città ucraine continuano); e se si parla di una ripresa delle forniture di aiuti militari americani all’Ucraina. Di concreto sembra, però, esserci solo il trasferimento di una batteria di Patriot da Israele all’Ucraina. E non è chiaro se le forniture di cui si parla siano quelle già decise dalla presidenza Biden o siano nuove.
L’Ap dava così notizia dell’intesa: “Usa e Ucraina firmano un accordo economico dopo che Trump ha esercitato pressioni su Kiev perché rimborsi a Washington gli aiuti – militari e finanziari, ndr – fornitile per respingere l’invasione russa”. Per il segretario al Tesoro Scott Bessent, che firma l’intesa con la ministra dell’Economia ucraina e vice-premier Yulia Svyrydenko, “questa partnership permetterà agli Usa d’investire in Ucraina” e “di accelerare la ripresa economica ucraina”. Svyrydenko afferma che l’accordo “attirerà investimenti globali nel nostro Paese”.
Incerto fino all’ultimo – Bessent avrebbe persino invitato la Svyrydenko a tornarsene a casa, se non era pronta a firmare -, l’ok al documento viene letto da molti media Usa come una vittoria ucraina: “Il linguaggio dell’accordo segna un successo di Kiev, che cercava segnali di sostegno da parte Usa da quando Trump era tornato presidente”. Segnali che il Washington Post ritrova nell’affermazione dell’impegno “a una strategia di allineamento di lungo termine” – incoraggiante per Kiev, ma la cui concretezza va verificata –. Più prudente il New York Times, secondo cui l’intesa tra Usa e Ucraina “dovrebbe contribuire alla ripresa dell’economia ucraina”.
L’accordo fa notizia ovunque nel Mondo, da Politico a Le Monde: “Usa e Ucraina creano un fondo d’investimento comune delle risorse naturali ucraine. Dopo lunghi e difficili negoziati, Kiev e Washington firmano un’intesa per lo sfruttamento dei minerali contenuti nel suolo ucraino, compreso petrolio e gas”. L’entità di queste ricchezze deve ancora essere determinata, così come l’impatto che l’accordo potrà avere sui negoziati di pace in corso.
I giorni successivi portano, però, segnali contraddittori. Trump dice che c’è “troppo odio tra Putin e Zelensky”: “Forse, la pace tra Russia e Ucraina potrebbe non essere realizzabile”. Zelensky segnala di “non potere garantire la sicurezza” dei leader ospiti del presidente russo Vladimir Putin a Mosca il 9 maggio. ci sarà pure il presidente cinese Xi Jinping -. “Non si sa cosa la Russia intenda fare – spiega -, per poi accusare noi”. Replica su Telegram l’ex presidente russo Dmitry Medvedev: “Se ci sarà una provocazione il Giorno della Vittoria, nessuno può garantire che Kiev vedrà il 10 maggio”.
In un docu-film celebrativo dei suoi 25 anni al potere in Russia, Putin esprime l’auspicio che “non ci sia bisogno di usare l’atomica in Ucraina. Ma quando Zelensky propone di estendere a 30 giorni la mini-tregua di tre giorni intorno al 9 maggio, il leader russo non raccoglie il rilancio.
Quanto all’atteggiamento degli Usa verso l’Ucraina, il Washington Post critica, l’inviato di Trump per i negoziati con Mosca, Steve Witkoff, che torna a incontrare Putin e dà per buoni i referendum per l’annessione della Crimea nel 2014 e dei territori occupati nel 2022. Ma, soprattutto, fa scalpore uno scoop, non smentito, dello stesso giornale secondo cui l’Amministrazione Trump chiede a Kiev di accogliere sul proprio territorio, in tempo di guerra, migranti deportati dagli Stati Uniti – sintomo dell’insensibilità di Trump ai problemi dei partner -. Analoga richiesta è stata rivolta alla Libia: dopo Venezuela ed El Salvador, l’Amministrazione Usa cerca sbocchi per i migranti illegali, di cui vuole assolutamente liberarsi, in barba al rispetto delle leggi e dei diritti umani.
Trump 2: ‘giri di valzer’ e un’altra batosta, l’Australia dopo il Canada

Cento giorni da poco passati ed ecco il primo ‘giro di valzer’ del Trump 2, che, con un facile gioco di parole – lo fa pure la Cnn – potremmo chiamare un ‘giro di Waltz’: Mike Waltz lascia l’incarico di consigliere per la sicurezza nazionale, dove era stato progressivamente emarginato, ma non lascia l’Amministrazione: va a fare il rappresentante permanente degli Usa alle Nazioni unite.
L’incarico è rimasto scoperto dopo che la deputata dello Stato di New York Elise Stefanik era stata indotta a rinunciare alla designazione per non rischiare di assottigliare la già risicatissima maggioranza repubblicana alla Camera (il suo seggio, rimesso in gioco, sarebbe stato molto probabilmente appannaggio dei democratici, con i chiari di luna attuali nei sondaggi).
Al posto di Waltz, ad interim, va il segretario di Stato Marco Rubio, che, a forza di elogiare il capo, sta scalando gli indici di gradimento nell’ ‘inner circle’ del magnate presidente. Waltz paga il ruolo nel Signal-gate: si assunse la responsabilità di avere ammesso – disse per distrazione – un giornalista a una chat su Signal in cui vertici civili e militari della difesa Usa discutevano dettagli di un attacco agli Huthi nello Yemen che stava per avvenire.
Ma Waltz paga anche, e forse soprattutto, una certa ‘non ortodossia’ rispetto alla linea dell’Amministrazione, specie sull’Ucraina. Waltz, infatti, è un falco, specie verso la Russia, nei cui confronti avrebbe voluto un atteggiamento più duro, di fronte alla difficoltà di indurla alla tregua, se non alla pace, mentre Trump privilegia il dialogo con Putin. Risultato, Waltz era stato in pratica estromesso dalla vicenda ucraina, così come da quella mediorientale, men-tre era cresciuto il peso e il ruolo di Witkoff.
L’incarico di consigliere per la Sicurezza nazionale è fra i più fragili, probabilmente il più fragile, nelle Amministrazioni Trump: nel primo mandato, il magnate presidente ne avvicendò sei, due più dei capi dello staff della Casa Bianca (che furono ‘solo’ quattro).

All’estero, Trump ha perso la seconda elezione consecutiva: dopo il Canada, l’Australia. I laburisti del premier uscente – ora confermato – di origini italiane Anthony Albanese hanno vinto le elezioni, coronando la rimonta sui conservatori che, fino a poco tempo fa, erano dati favoriti. L’esito del voto è uno schiaffo al magnate presidente e ai suoi dazi, come lo era stato a fine aprile quello canadese – lì ci fu la rimonta clamorosa e la vittoria del liberale Mark Carney sui conservatori ‘trumpiani’ -.
In Australia, i laburisti di Albanese sono andati ben oltre la maggioranza assoluta dei 150 seggi della Camera. Erano molti anni che un premier australiano non riceveva un secondo mandato, il che rende ancora più notevole il successo di Albanese, che ha fatto campagna contro i dazi di Trump.
Martedì, nello Studio Ovale, Trump ha ricevuto il neo-confermato premier canadese. Carney, dopo l’ennesimo riferimento di Trump a un inglobalmento del Canada negli Stati Uniti, è stato chiaro e netto: “Ci sono posti che non sono in vendita”. Ma Trump non ha mollato: “Mai dire mai”, pur ammettendo che “bisogna essere in due per danzare il tango”. Nonostante segnali di cordialità, i due non hanno fatto passi avanti per sanare la guerra commerciale che – scrive l’Ap – “ha compromesso decenni di fiducia fra i due Paesi”.