Le guerre sono sempre una tragedia, una sciagura, una calamità; e fanno sempre “danni collaterali”, come recita il gergo militare, cioè vittime civili innocenti, vecchi, donne, bambini. Qualche volta, però, innescano “vantaggi collaterali”, certo non confrontabili con i danni e i lutti che provocano, ma che possono rivelarsi duraturi: la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, cementò, attraverso prove inenarrabili, il rapporto transatlantico, che resiste da 75 anni e che potrebbe persino superare la ‘prova Trump’ (a condizione di superare, ora, la ‘prova Turchia).
L’aggressione della Turchia ai curdi induce l’Ue all’unità sul blocco dell’export di armi ad Ankara; mette i brividi alla Nato, di cui Ankara è il bastione sud-orientale; dà una scossa all’Onu, che resta, però, paralizzata; e pone forse definitivamente fuori gioco nella Regione gli Usa. Ritirandosi dall’area, l’America di Trump consegna la Siria a una spartizione in zone d’influenza tra Turchia e Russia e Iran, già avviata con il processo di pace di Astana e ora non più contrastata sul terreno.
L’effetto è così brusco che, nei circoli diplomatici mediorientali e occidentali, qualcuno pensa che fosse calcolato: i curdi resistono all’offensiva turca, che non riesce a essere una blitzkrieg; Trump ordina ai suoi di ‘tagliare la corda’ e di non restarsene a fare da cuscinetto; e Assad con il consenso di Putin, offre ai curdi una protezione pelosa, che è comunque meglio della repressione sanguinosa di Erdogan.
In questa guerra, turchi contro curdi, americani che si defilano, siriani che si propongono a difesa dei curdi con l’avallo dei russi, che prendono le postazioni degli americani e si interpongono come cuscinetto tra i belligeranti, ci sono giornate che tutto va veloce, soprattutto all’inizio, quando parte l’offensiva, E ci sono giornate come martedì 15 che sembrano succedere più cose nelle stanze della diplomazia, nelle aule dei Parlamenti, nelle telefonate fra leader che sul terreno.
Dove, però, si continua a sparare e a morire e, soprattutto, a fuggire da bombardamenti e combattimenti: alla mezzanotte del 15 ottobre, l’offensiva di Ankara aveva già fatto oltre 275 mila sfollati, che potrebbero diventare 400 mila nel Rojava. I turchi stimavano di avere eliminato 600 combattenti curdi – loro dicono “terroristi” – e di avere conquistato mille kmq di territorio. Ci sono stati giornalisti uccisi – almeno due – e feriti – almeno sei – in attacchi a convogli non militari. Ci sono stati attentati mirati – in uno, è stata uccisa un’attivista per i diritti delle donne, Hevrin Khalaf – e attacchi a prigioni dove erano detenuti miliziani dell’Isis, alcuni dei quali ne sono fuggiti – l’Ue e l’Onu temono una recrudescenza del terrorismo, per “il rilascio involontario di persone associate all’Isis” -. Colpi di mortaio sono caduti in Turchia, facendo morti e feriti.
Danni collaterali e buoi scappati
Se Trump da un lato se ne va e dall’altro ordina sanzioni contro la Turchia, l’Unione europea fa mostra d’unità nella difficoltà, come è già accaduto con la Brexit: riuniti a Lussemburgo, i ministri degli Esteri dei 28 – c’è pure, forse per l’ultima volta in questa formato, la Gran Bretagna – condannano “l’azione della Turchia, che mina seriamente stabilità e sicurezza della Regione” e avallano il blocco delle vendite di armi a quanti lo hanno già deciso o lo stanno decidendo – l’Italia s’aggiunge a Francia, Germania, Spagna, i Paesi Nordici, l’Olanda e altri -.
Certo, c’è la sensazione di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati: se le armi a Erdogan non gliele vendevamo prima, ora il ‘sultano’ si trovava gli arsenali meno riforniti; a non vendergliele adesso, gli facciamo un po’ un baffo, perché l’offensiva finirà prima delle munizioni. Ma, almeno, non gli verrà in mente per un po’ di farne partire altre (di qui in avanti il pezzo è un collage di mieri articoli già pubblicati nei giorni precedenti, ndr).
Il risiko della Siria e le domande sul futuro
Nel risiko della Siria, l’iniziativa di Erdogan non trova sostegno internazionale. Russia e Iran, che con la Turchia sono protagoniste del processo di pace di Astana per dare una soluzione politica all’intricato conflitto civile siriano, appaiono caute ed esprimono preoccupazione: e Mosca induce Damasco a tornare nel Rojava, cioè il Kurdistan siriano, per fare un argine all’invasione turca. L’Arabia saudita, che contende all’Iran l’egemonia regionale, non vede con favore l’invadenza nell’area della Turchia, un attore scomodo. Israele, che non è più in luna di miele con Ankara, teme che si risveglino in Siria dinamiche ostili.
Nessuno, però, scende in campo al fianco dei curdi, a protezione dei curdi, che sono stati sul terreno gli artefici della sconfitta dell’Isis, che hanno difeso Kobane, conquistato la capitale del Califfato Raqqa, ripreso l’ultimo bastione dei miliziani jihadisti Baghuz. A Roma, esponenti curdi chiedono che la comunità internazionale fermi gli attacchi nel Rojava, de facto autonomo: “Con la coalizione, abbiamo cancellato l’Isis. Ora siete con noi?, o con gli jihadisti?”.
Il gioco degli Usa
L’atteggiamento di Trump, in questa crisi, è quanto meno erratico: dà via libera all’offensiva turca, con il ritiro dalla zona dei militari americani; poi mette in guardia Erdogan, predisponendo sanzioni. Il rapporto fra Washington e Ankara è forse ‘inquinato’, in questo frangente, da rapporti d’affari e da interessi particolari.
La stampa Usa si pone interrogativi: perché il magnate presidente ha consentito, ritirando le truppe proprio in questo momento, che un’area della Siria relativamente stabile tornasse a essere un campo di battaglia?, chi controllerà ora il Nord-Est?, che ne sarà dei curdi?, quanto e quanti civili saranno coinvolti?, i miliziani dell’Isis ritroveranno vigore?
Scrive il New York Times: “La fiducia di Trump nel suo istinto e nelle sue relazioni personali lo hanno portato a ignorare le conseguenze di una mossa che ha rafforzato la Russia, l’Iran e l’Isis”. Le truppe Usa ritirate dal Nord-Est resteranno in Siria, in particolare nella base di Al Tanf a Sud, per monitorare gli eventi e impedire – twitta il presidente – che si ripeta quanto accadde nel 2014, quando il ritiro delle truppe dall’Iraq e la sottovalutazione della minaccia dell’Isis favorì l’estensione dell’autoproclamato Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.
L’atteggiamento di Trump verso Erdogan
Le premesse erano terrificanti: “Sono totalmente pronto a distruggere rapidamente l’economia turca se i leader turchi continuano su questa strada pericolosa e distruttiva”, aveva twittato, a più riprese, con formule analoghe, Trump, ammonendo Erdogan. Ma, all’atto pratico, le misure anti-Turchia prese dall’Amministrazione statunitense non sono così devastanti: colpiscono tre ministri (difesa, interno, energia), dirigenti ed ex dirigenti del governo turco e qualsiasi persona “che contribuisca alle azioni destabilizzanti della Turchia nel Nord-Est della Siria”; un aumento dei dazi sull’acciaio sino al 50%; e uno stop ai negoziati per un accordo commerciale da 100 miliardi di dollari.
Roba che Erdogan non sarò contento, ma neppure si dispera, anche se forse comincia a temere di fare la fine dei generali argentini, che furono indotti dall’ubris a invadere le isole Falklands e che poi scontarono la disfatta con l’uscita di scena.
Un momento!, però: quelli avevano di fronte Margaret Thatcher, un archetipo – nel bene e nel male – di fermezza e determinazione; Erdogan ha di fronte Trump, un modello di incostanza e volubilità, capace di rimproverare ai curdi di non avere aiutato l’America nello sbarco in Normandia; e di dire “Chiunque voglia aiutare la Siria a proteggere i curdi, per me va bene, che sia la Russia, la Cina o Napoleone Bonaparte. Spero che tutti facciano bene, noi siamo a 7000 miglia di distanza”. Veramente, loro, gli americani, erano lì, proprio sul posto, con mille uomini certo meglio armati ed equipaggiati di curdi e siriani e persino dei turchi; ma se ne sono andati.
Trump non s’imbarazza di essere il colonnello Kerremans di questa guerra (Thom Kerremans comandava i caschi blu olandesi dell’Onu che nel luglio del 1995 a Srebrenica si scansarono quando i serbo-bosniaci trucidarono ottomila bosniaci). “Dopo aver sconfitto l’Isis – come se l’Isis, sul terreno, non l’avessero sconfitto i curdi, ndr -, ho fondamentalmente portato le nostre truppe fuori dalla Siria. Lasciamo che la Siria ed Assad proteggano i curdi e la propria terra e combattano la Turchia. Ho detto ai miei generali, perché dovremmo combattere per la terra del nostro nemico?”, cioè di Assad – anche se, veramente, è la terra dei curdi -.
Il presidente manda ad Ankara il suo vice Mike Pence, con il segretario di Stato Mike Pompeo e il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien. Le decisioni di Trump suscitano imbarazzo e irritazione anche fra i senatori repubblicani. Il loro leader Mitch McConnell avverte: “Ritirare le forze dalla Siria ora ricreerà le condizioni che abbiamo lavorato duro per eliminare” e farà rinascere il sedicente Stato islamico. Inoltre, Russia e Iran ne profittano già per aumentare l’influenza nell’area: “Un esito catastrofico per gli interessi strategici degli Stati Uniti”, ne conclude McConnell, finora un alleato del presidente.
Il gioco dell’Ue e dell’Italia
A Lussemburgo, lunedì 14, i ministri degli Esteri dei 28 condannano “l’azione militare della Turchia che mina seriamente stabilità e sicurezza di tutta l’area” e sollecitano “l’impegno degli Stati membri a posizioni nazionali forti sull’export d’armi alla Turchia”, avallando di fatto il blocco delle vendite.
Martedì 15, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio annuncia alla Camera che l’Italia sospende l’export d’armi alla Turchia e avvia pure “un’istruttoria sui contratti in essere”: misure che trovano concordi tutte le forze politiche. La Gran Bretagna fa lo stesso; Francia, Germania, Spagna, i Paesi Nordici, l’Olanda lo avevano già fatto.
“La Turchia è la sola responsabile dell’escalation” in Siria e “deve immediatamente sospendere l’azione militare”, dice Di Maio, che esprime gratitudine ai curdi, per quanto hanno fatto contro l’Isis, il sedicente Stato islamico, e paventa “effetti devastanti sul piano umanitario”. Da Tirana, dove è in visita, il premier Giuseppe Conte schiera l’Italia in prima fila nel fronte europeo anti-conflitto: “L’ho detto e lo ripeto con forza, sulla Turchia l’Italia sarà capofila di una decisione forte da parte dell’Ue. Ma per essere efficace e portare a un risultato concreto questa decisione deve essere unitaria. Il blocco dell’export d’armi verso la Turchia è una iniziativa doverosa, ma non sarà la sola … Non è accettabile che l’Ue, che finanzia ampiamente Ankara, ne accetti le minacce sui rifugiati siriani”. Nicola Zingaretti e Matteo Renzi, leader di Pd e Italia Viva, prospettano l’ipotesi d’una forza di interposizione fra turchi e curdi.
Per l’Italia, la Turchia è il terzo Paese al Mondo, dopo Qatar e Pakistan, destinatario del suo export militare. Il tema del conflitto nel Nord-Est della Siria e delle misure contro la Turchia è presente nelle conversazioni che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accompagnato da Di Maio, ha mercoledì 16 alla Casa Bianca con Donald Trump.
La pressione europea si sviluppa anche al Palazzo di Vetro, dove i cinque membri Ue del Consiglio di Sicurezza, i due permanenti, Gran Bretagna e Francia, e Germania, Polonia, Belgio, sollecitano una nuova riunione – una prima, la settimana scorsa, non approdò a decisioni concrete -. Ma Erdogan torna a sfidare l’Occidente e specialmente l’Unione: “Sosteneteci o accogliete i rifugiati”, quei due milioni di siriani in Turchia di cui lui nel 2016 ha barattato la custodia con sei miliardi di euro.