Nello ‘scatolone di sabbia libico’ d’altri tempi e d’altre retoriche, ‘guerre lampo’ e ‘uomini forti’ sono formule logorate dalle scaramucce mai decisive di conflitti sfilacciati a bassa intensità e dai riti da ‘te nel deserto’ della diplomazia internazionale. A 150 giorni dall’avvio dell’offensiva del generale Khalifa Haftar per prendere il controllo di Tripoli, l’attacco pare rintuzzato, ma il conflitto in Libia “si è geograficamente diffuso, con un pesante tributo di vite di civili e combattenti. A oggi, i civili uccisi sono più di cento e i feriti oltre 300, mentre 120.000 persone sono state sfollate”.
Dati contenuti nel rapporto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu fatto in settimana dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salamé, un accademico libanese che dal giugno 2017 prova a tracciare una processo condiviso perché la Libia cessi di essere uno ‘Stato fallito’, com’è dalla guerra civile del 2011 con il rovesciamento e l’uccisione di Muammar Gheddafi.
Salamé avverte che, se i partner internazionali continueranno a sostenere i loro alleati, la situazione potrebbe degenerare, con un’escalation magari regionale della guerra civile tra le forze di Haftar, che hanno le basi nell’Est e fanno capo a Bengasi e a Tobruk, e quelle del capo del governo riconosciuto dalla comunità internazionale Hafez al Sarraj, che hanno punti di riferimento a Tripoli e Misurata.
Per Salamé, l’attacco di Haftar il 4 aprile interruppe “un processo politico attivo e promettente” e fece ripiombare il Paese “in un rinnovato conflitto”. In realtà, il processo politico era faticoso e nebuloso; le scadenze e le procedure elettorali volta a volta indicate incerte e sempre procrastinate; e i rapporti di forza cangianti, perché rais e milizie sono sensibili alle lusinghe di chi offre di più.
In questa fase, l’inerzia del conflitto è favorevole ad al Sarraj, dietro al cui governo è blandamente schierata la comunità internazionale: il presidente Usa Donald Trump ha dato all’Italia un mandato “limitato” a occuparsi della Libia per conto suo (salvo poi aprire inopinatamente ad Haftar, l’uomo della Francia, lasciando il Conte 1 con il cerino in mano); l’Egitto sostiene Haftar in funzione anti-terrorismo integralista (e anti–Fratellanza musulmana); la Russia flirta con Haftar. ma ammette che “una soluzione politica in Libia è più difficile che in Siria” – il che è tutto dire -. E l’ex presidente del Consiglio italiano Romano Prodi, venerdì, al Forum Ambrosetti, ha parlato di “follia libica”: l’Unione europea non è protagonista, ma sciorina divisioni e contrasti tra Roma e Parigi, dove contano più gli interessi economici e le influenze mediterranee che i trascorsi coloniali.
Dopo avere fatto rapporto al Consiglio di Sicurezza, Salamé ha incontrato al Sarraj e gli ha ribadito che non esiste una soluzione militare alla crisi libica, mentre il premier tiene il punto di difendere Tripoli dalle aggressioni. L’attività militare ostacola il flusso e la distribuzione degli aiuti umanitari, senza sottovalutare il rischio, connesso al cambio di governo in Italia, di una ripresa dei flussi di migranti.
Per il momento, gli obiettivi dell’Onu appaiono limitati: capitalizzare la tregua raggiunta in agosto, in coincidenza con la festività di Eid al Adha, e arrivare a un cessate-il-fuoco “più profondo e più prolungato”, capace di “garantire stabilità ai libici e di consentire di tornare al processo politico”, dice Salamé, che pare però negare la realtà di combattimenti mai sospesi, di scaramucce continue.
Lunedì scorso, l’aeroporto internazionale di Mitiga, l’unico ancora funzionante a Tripoli, è stato chiuso dopo che razzi Grad lanciati dalle forze di Haftar hanno colpito la pista pochi minuti dopo l’atterraggio di un aereo che trasportava centinaia di pellegrini di ritorno dall’Hajj alla Mecca. L’attacco ha ucciso quattro persone, tra cui una donna; e ne ha ferite una trentina.
Haftar le tenta tutte per rilanciare l’offensiva, oggi fallita, e prepara un’avanzata verso Gharyan, mentre l’aviazione di al Sarraj colpisce le forze del generale nel distretto di Al Urban: obiettivo, bloccare l’arrivo di rinforzi da Bengasi e ridurre la capacità operativa degli avamposti ancora attestati nei pressi della capitale.
Secondo Difesa&Sicurezza, Haftar sta ammassando unità e mezzi per lanciare un nuovo massiccio attacco contro l’altopiano, perduto ad agosto e non riconquistato a fine mese, quando i miliziani di Misurata e loro alleati hanno ricacciato indietro le sue truppe. “Riprenderlo per lui è fondamentale – scrive il sito -, perché è l’unica via per permettere di nuovo ai convogli di rinforzi e di rifornimenti di raggiungere la sua prima linea a sud di Tripoli. Questa, infatti, è ormai allo stremo con gli uomini a pezzi e senza risorse”. Una riprova delle difficoltà di Haftar sarebbe il fatto che gli ultimi attacchi alla capitale libica sono stati portati solo con la componente aerea.