A ormai quasi un anno e mezzo dal referendum sulla Brexit del 23 giugno 2016, i negoziati tra Ue e Gran Bretagna, per definire i futuri rapporti tra i 27 e Londra, sono in stallo, mentre l’Europa accusa il trauma e la pantomima della ‘secessione’ catalana e, quasi per reazione cambia passo sulla difesa e fa progressi verso l’integrazione in un settore tradizionalmente percepito come un baluardo del sovranismo.
Discutendone insieme, lunedì 30 ottobre, a Roma, a un evento organizzato dallo IAI, l’Istituto Affari Internazionali, l’Alto Rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza Federica Mogherini e il ministro della Difesa Roberta Pinotti hanno constatato, quasi all’unisono, che l’uscita del Regno Unito semplifica il disegno di un’ ‘Europa della Difesa’ sul Continente, anche se la costruzione resta difficile da realizzare e delicata da gestire, nella costante ricerca d’un incerto equilibrio tra interessi nazionali e comuni.
Il negoziato: che cosa dice il Trattato e che cosa accade
Prendendo alla lettera il Trattato di Lisbona, che regola il negoziato per l’uscita di un Paese dall’Ue, il dato di fondo è semplice: la trattativa può durare due anni, a partire non dalla data del referendum o della formalizzazione della decisione di secessione, ma da quella dell’apertura del tavolo (avvenuta a marzo: ci sono voluti nove mesi alla Gran Bretagna per definire la propria posizione).
I negoziati tecnici ufficiali sono poi cominciati il 19 giugno, a quasi un anno esatto dal referendum: le delegazioni s’incontrano una settimana al mese, in formazioni diverse, secondo i temi affrontati. Uno degli ostacoli da superare è l’ammontare del debito che Londra deve versare alle casse dell’Ue per rispettare gli impegni presi sul bilancio comune: le stime oscillano da poche decine di miliardi di euro a 100 miliardi.
A trattative in corso, il 13 luglio, la premier britannica Theresa May e il suo governo hanno deposto ai Comuni la proposta di legge, il Great Repeal Bill, per annullare il provvedimento del 1972 che sanciva l’incorporazione della legislazione europea in quella britannica, lo European Communities Act. E, ancora un mese dopo, a metà agosto, il governo britannico ha cominciato la pubblicazione dei ‘position papers’, documenti in cui spiega la sua posizione negoziale sulle questioni più delicate, come il confine tra l’Irlanda e l’Ulster, il trattamento dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna e i meccanismi d’immigrazione dopo la Brexit.
L’impressione è che Londra si sia resa conto solo progressivamente dell’impatto della Brexit, che aveva inizialmente visto come un’operazione a senso unico: loro uscivano dall’Ue e non ne sopportavano più oneri e vincoli, ma continuavano a godere come se nulla fosse di tutti i vantaggi, ad esempio, del mercato unico delle merci e dei capitali.
La presa di coscienza britannica ha apparentemente intaccato la determinazione a uscire, anche se nessuno mette in discussione l’esito del referendum, e ha pure rallentato le trattative, che viaggiano con un ritardo notevole sulla tabella di marcia prefissata. Così che, al Vertice europeo di Tallinn, a metà ottobre, i capi di Stato e/o di governo dei 27 hanno solo potuto rinviare a fine anno l’esame dello stato dei negoziati.
La cui tappe finali restano però invariate: entro l’ottobre del 2018, cioè entro un anno, il negoziatore in capo dell’Ue, l’ex commissario europeo Michel Barnier, calcola che le trattative siano chiuse; ed entro il 29 marzo 2019 il Parlamento britannico dovrà approvare l’accordo di secessione e, insieme, il Great Repeal Bill. Anche il Consiglio europeo dovrà approvare a maggioranza qualificata l’intesa.
Una proroga dei negoziati richiederebbe, invece, un voto unanime. E porterebbe Bruxelles e i 27 e Londra a impaniarsi nella ragnatela delle elezioni europee del giugno 2019: sarebbe davvero difficile, istituzionalmente e nei confronti dell’opinione pubblica, gestire l’appuntamento, senza avere prima formalizzato la secessione.
Il rapporto che intriga tra Brexit e difesa europea
I negoziati sulla Brexit proseguono, dunque, a rilento e senza registrare progressi. E la discussione sui futuri rapporti commerciali resta in ‘stand by’, in attesa che ci siano stati adeguati passi avanti sui dossier attualmente aperti. Alessandro Marrone, responsabile di ricerca dello IAI, scrive, insieme a un suo giovane collaboratore, Andrea Aversano Stabile, in un articolo sulla rivista dell’Istituto, AffarInternazionali.it: “Rimane quindi incerto sia “quando” i negoziati finiranno – si parla di dilazioni e di periodo transitorio – sia “come” finiranno”, non escludendosi lo scenario più ‘catastrofico’, un’assenza di accordo nel momento in cui, a marzo 2019, scadranno i tempi fissati dal Trattato di Lisbona. “E’ perciò molto difficile ragionare sulle future relazioni tra Gran Bretagna e Ue, nonostante il governo della May lanci già ora idee su cooperazioni o accordi con Bruxelles in vari campi, incluso quello della sicurezza e difesa”.
Marrone, un esperto proprio di sicurezza e difesa, osserva: “La prospettiva della Brexit sta avendo una serie di effetti sulla difesa europea, anche a causa dello stallo delle trattative e dell’incertezza sui loro tempi ed esito”. Da un lato, vi è un graduale indebolimento – nella percezione prima che nella realtà – delle cooperazioni bilaterali ed europee che vedono il coinvolgimento di Londra. Una delle cause sta nella prudenza degli attori nell’investire risorse senza avere, ad esempio, chiarezza su quale sarà l’accesso al mercato Ue degli equipaggiamenti co-prodotti con il governo britannico, in termini di dazi doganali, standard da rispettare, giurisdizione legale per le controversie, ecc
Dall’altro lato, e in modo forse più evidente, l’incertezza del percorso verso la Brexit ha contribuito al rafforzamento di cooperazioni bilaterali regionali e europee, senza la problematica partecipazione di Londra – vedasi il rilancio del partenariato franco-tedesco voluto dalla cancelliera Angela Merkel e dal presidente Emmanuel Macron -. Inoltre, il Regno Unito ha stilato una serie d’intese bilaterali, tra cui spicca il Trattato di Lancaster House del 2010 con la Francia, che non sarebbero direttamente compromesse da un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione.
Cambi di passo e marce indietro
Se la prospettiva della Brexit accelera processi d’integrazione su altri fronti, nonostante il persistere di pulsioni euro-scettiche e il vulnus delle politiche d’immigrazione, che creano più ansie di quante non ne acquietino, essa ha per contro contribuito a irrigidire la posizione dell’Ue rispetto a quanto sta avvenendo tra Spagna e Catalogna, tra Madrid e Barcellona: senza la Brexit, l’indipendentismo dei catalani avrebbe forse potuto raccogliere qualche tiepida simpatia romantica nei Paesi dell’Ue; così, il fronte europeo è stato unito e compatto, sulla linea unionista, legalitaria e ‘costituzionale’ del governo di Mariano Rayoj.
“Venerdì 27 ottobre può ben dirsi il giorno in cui si è chiusa una fase della questione catalana”, scrive Andrea Carteny su AffarInternazionali.it. Il Parlamento di Barcellona ha votato l’indipendenza e proclamato la repubblica. Contestualmente, il governo spagnolo ha posto in essere – con l’avallo del Senato – il controllo diretto sulla Comunità autonoma previsto dall’articolo 155 della Costituzione, sospendendone le prerogative di autogoverno.
La protagonista della repressione da parte delle forze di polizia spagnole nel giorno del referendum, la vice-premier Soraya Saenz de Santamaría, ha assunto le funzioni del deposto e fuggitivo presidente della Generalitat Carles Puigdemont, che ha preferito cercare un improbabile rifugio proprio a Bruxelles, non presso l’Ue, ma presso i secessionisti fiamminghi.
I Paesi dell’Ue, Gran Bretagna compresa, con il suo bubbone scozzese ancora pulsante europeismo e indipendentismo, sperano in una normalizzazione della situazione per arrivare a nuove elezioni nella Comunità catalana, il 21 dicembre. E ora, mentre gli unionisti catalani scendono in piazza (“Essere catalani è un orgoglio, essere spagnoli un onore”) e gli indipendentisti cercano la loro ‘via non violenta’ all’autonomia, il confronto si sposta nella società, nella vita di tutti i giorni: chi vincerà?
I sondaggi dicono che la maggioranza del prossimo Parlement sarà unionista: i catalani vivono l’ebbrezza dell’indipendenza sull’orlo del baratro di ritrovarsi, da un giorno all’altro, fuori dall’Ue. E se stare con la Spagna è un purgatorio, non essere in Europa è un inferno.