Fra un mese e una settimana, Roma sarà teatro delle celebrazioni del 60° anniversario della firma – il 25 marzo 1957 – dei Trattati istitutivi delle allora Comunità europee: un appuntamento caricato, dall’attualità internazionale e dai percorsi dell’integrazione, di molte contrastanti valenze. La crisi ormai quasi decennale più subita che gestita e il flusso dei migranti tirano fuori il peggio dai Paesi dell’Unione, più inclini all’egoismo che alla solidarietà; e Donald Trump usa toni da picconatore del progetto europeo (ma, proprio per questo, potrebbe pure essere, suo malgrado, un catalizzatore delle energie e dell’orgoglio europei).
Il 25 Marzo, quando i leader dei Paesi dell’Ue si riuniranno in Campidoglio, sarebbe l’occasione per cantargliele chiare, al presidente magnate: “Siamo europei e #wepersist” (riconvertendo l’hashtag divenuto virale della senatrice democratica Elizabeth Warren, #shepersisted). Ci vogliono però coraggio e coesione, due virtù rare nell’Unione 2017.
Il sì alla Brexit nel referendum britannico del 23 giugno e l’affermazione di Trump l’8 novembre, due risultati appena attenuati dalla vittoria in Austria – nelle presidenziali del 4 dicembre -dell’europeista verde Alexander van der Bellen, lasciano temere successi dei movimenti populisti e nazionalisti, xenofobi e anti-Islam, euro-scettici ed anti-euro, nella raffica di elezioni che ci saranno in Europa dei prossimi mesi. E l’avanzata dell’anti-politica dall’Ue agli Usa ravviva gli interrogativi sull’asserita generale ‘crisi strutturale’ della democrazia rappresentativa in tutto l’Occidente.
E l’Italia, protagonista quest’anno sulla scena internazionale, con la presidenza di turno del G7 ed un posto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, si schiera nel ruolo azzoppata dalle beghe politiche, condizionata dalle incertezze elettorali e frenata da una squadra ministeriale inadeguata in alcune figure chiave della politica estera.
Preoccupazioni e opportunità
E’ stata “preoccupazione” la parola dominante nei commenti europei agli impetuosi e incontenibili esordi alla presidenza di Trump: alla vigilia del Vertice europeo informale a Malta, a inizio mese, l’avevano usata il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, il responsabile dell’immigrazione Avramopoulos, parlando dell’approccio Usa alle questioni immigrati e rifugiati, e il responsabile dell’Energia Sefcovic, parlando dell’approccio al cambiamento climatico. E, se non fossero stati rispettosi – loro sì – del galateo diplomatico, i leader europei avrebbero usato espressioni più virulente.
La riunione di Malta s’è svolta nel segno delle prese di posizione poco amichevoli di Trump verso l’Ue (a favore della Brexit e di altre Brexit) e degli attacchi contro l’euro e la Germania più volte ripetuti consiglieri del presidente, specie Peter Navarro, specialista di commercio internazionale. “Ci mette in una situazione difficile”, aveva scritto con insolita chiarezza Tusk, nella lettera di invito ai leader dei 28.
Finora, Trump non s’è proprio filato le Istituzioni europee, non ha neppure risposto al messaggio d’auguri di Tusk e del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, ha designato come rappresentante a Bruxelles un aggressivo anti-europeista, Ted Malloch, cui i 28 farebbero bene a fare sospirare l’accredito, e non ha nascosto il proprio progetto: evitare il dialogo Usa-Ue e sostituire al rapporto – più o meno alla pari – tra due mercati e due potenze economicamente confrontabili il rapporto nettamente squilibrato tra gli Stati Uniti e i singoli Paesi europei.
Questo disegno tenta la Gran Bretagna di Theresa May, che, sulla soglia d’uscita dall’Ue, ha bisogno di un partner che le dia peso – ma la May ha già sperimentato come l’abbraccio di Trump possa essere imbarazzante -. Altre risposte sono state invece ferme – quella della cancelliera Merkel -, persino urticanti – quella del presidente Hollande, che ormai può dire quel che vuole – o addirittura sprezzanti – quella del premier ungherese Viktor Orban, “Noi fuori dall’Ue? Non ci pensiamo proprio” -. In questo panorama, l’Italia deve evitare la tentazione di andare a scodinzolare alla Casa Bianca: “Sarebbe sicuramente un errore cadere nella tentazione di una presunta intesa diretta con gli Usa di Trump a prescindere da, o addirittura in contrasto con, i nostri tradizionali referenti: Ue e Nato”, scrive su AffarInternazionali.it l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dello IAI e già rappresentante dell’Italia presso l’Ue e commissario europeo.
Forse per smorzare le pulsioni anti-Ue anti-Nato finora percepite, il vice-presidente Usa Mike Pence sarà a Bruxelles lunedì 20 febbraio.
Il bando anti-Islam e rifugiati, un assist ai 28
Con le misure radicali contro gli ingressi negli Usa da sette Paesi musulmani e, soprattutto, contro l’accoglienza dei rifugiati, congelate dalla magistratura federale, Trump ha però servito un assist ai leader dei 28: ha dato loro l’occasione d’assumere una posizione netta e unitaria, riconoscibile come europea e finalmente apprezzabile in modo positivo dalle opinioni pubbliche nazionali.
A Malta, i capi di Stato o di governo dei Paesi dell’Ue si sono concessi un pranzo nella baia della Valletta, a bordo d’un due alberi d’epoca, come bravi gitanti. A tavola, però, c’era lui, il convitato di pietra, Trump. Ed è stato il ‘Donald de noantri’, il polacco Tusk, a sollecitare a chi ha avuto più contatti con il magnate presidente lumi e impressioni: la May, Hollande e la Merkel hanno fatto i loro rapporti.
Tirando le somme, Tusk s’è sforzato di essere positivo: “L’unica vera minaccia è che noi non siamo uniti di fronte alle sfide”; la novità Usa “è una sfida e non una minaccia, ma può diventarlo se non siamo determinati”. Per Tusk, l’atmosfera fra i 28 è “promettente”: “Abbiamo dimostrato di essere sufficientemente uniti” per reggere la partita. Tra i 28, “vi sono diversi temperamenti, ma un solo obiettivo: proteggere l’Europa”. Da Trump, neppure un tweet di commento: il silenzio conferma l’irrilevanza europea, almeno ai suoi occhi.
I dati di fatto, però, alimentano più timori che speranze. I tempi sono stretti, e le scadenze dei voti fitte, perché l’Unione si compatti sulla crisi dei migranti e sull’accoglienza dei rifugiati, dotandosi di controlli europei alle frontiere esterne – qualcosa è già stato fatto – e di un diritto d’asilo europeo, e imposti una politica di difesa europea, complementare e non alternativa a quella atlantica, ma capace di evitare sprechi e duplicazioni e di risultare efficiente e adeguata.
La Merkel, che è oggi la figura di riferimento nell’Ue, ha riproposto un’integrazione a più velocità: un modello, in realtà, già sperimentato nelle maggiori conquiste europee, come l’euro e la libertà di circolazione. Se adottarlo per l’immigrazione e la difesa consente d’andare avanti, lasciando fuori i Paesi riluttanti, lo si faccia pure, consapevoli, però, che un’ingegneria istituzionale complicata e differenziata può essere percepita dai cittadini solo come un mostruoso apparato burocratico.
La carrellata di elezioni nell’Ue
La carrellata d’appuntamenti elettorali è eccezionale: il 2017 dell’Ue appare un percorso a ostacoli. Il 15 marzo, si vota in Olanda; il 26 marzo nella Saar in Germania; il 23 aprile, c’è il primo turno delle presidenziali francesi; il 7 maggio, il ballottaggio francese e si vota nello Schleswig-Holstein ancora in Germania; il 14 maggio, si vota nella Renania del Nord – Westfalia, sempre in Germania; e, infine, il 24 settembre ci sono le politiche tedesche.
A questi appuntamenti, potrebbero ancora aggiungersi le politiche italiane. E restano da definire tempi d’avvio e ritmi del negoziato sulla Brexit, che, a quasi otto mesi dal referendum britannico, rimane un’incognita: una spada di Damocle sul capo dell’Unione e della Gran Bretagna.
C’è poco da sperare che i leader dei Grandi dell’Unione abbiano colpi d’ala europei in un contesto di sfide nazionali così incerte e aperte. E le presidenze di turno del Consiglio dell’Ue sono deboli: Malta nel primo semestre e l’Estonia nel secondo, due piccoli Paesi, entrambi esordienti nel ruolo.
Di come “costruire l’Europa federale nell’era dei populismi” si discute a Bruxelles e nelle capitali dei 28. Le famiglie politiche tradizionali europee cercano di stornare l’insidia populista e hanno, talora, la tentazione di rincorrere gli antagonisti sul loro terreno. Gli europeisti che ancora ci credono, invece, invitano a unire le energie per salvare e rilanciare il progetto d’integrazione, nato oltre settant’anni or sono nelle tenebre più profonde della Seconda Guerra Mondiale.
L’attuale processo ha perso slancio politico e ha pure perso l’appoggio dei cittadini, che, prostrati dalla crisi del 2008 e delusi dalle risposte dell’Ue, rimproverano all’Unione di non rappresentare, come sperato, un frangiflutti della globalizzazione e di non gestire il flusso dei migranti, garantendo la sicurezza. Un modo, forse l’unico, per riscattare e fare ripartire l’integrazione è di rinnovarla, dando maggiore legittimità democratica all’azione politica europea e innestandovi una concreta prospettiva federale, nella convinzione che il vero ‘sovranismo’ non è la restituzione di sovranità ai singoli Stati, progressivamente irrilevanti, ma il conferimento di maggiore sovranità all’Unione, che può avere voce in capitolo nei consessi e nei processi internazionali.
Eppure, sarebbe l’ora d’aprire viottoli di speranza e ambizione tra le rovine di un’Unione sbriciolata nei suoi valori fondamentali – lo Stato di diritto e la solidarietà – e marginale nelle crisi mondiali, anche sull’uscio di casa, come la vicenda siriana dimostra. E di dare all’Europa una voce unica e forte nei consessi internazionali, dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu al Fondo monetario internazionale, dal G8 al G20.