Non sono un critico cinematografico. Ma avrei l’ardimento oggi di occuparmi del film che ha vinto il Leone d’argento a Venezia e che con ampia designazione rappresenterà il cinema italiano alla prossima edizione degli Oscar.
Ho visto il film a settembre, a Milano, nelle sue prime ardimentose uscite in sala. Poi il film ha scalato il box office e ora resiste con successo di pubblico un po’ in tutta Italia. Lo rivedo a Roma, adesso, quando è un po’ maturata anche la discussione. Dico un po’ perché il film divide. Applausi, apprezzamenti, sì. Ma sul senso di questa “rappresentanza internazionale” pochi si pronunciano.
Ho perso – lo facevo anni fa assiduamente – di cogliere le connotazioni critiche al momento della presentazione premiata alla Biennale. Quindi quando l’ho visto, portato di peso da mia figlia, avevo diverse scelte per immaginare di che si trattasse. Per esempio, pensare che il film fosse ispirato al Pianto antico di Giosuè Carducci, sonetto che ogni ex-studente di una volta sa a memoria, credo per tutta la vita:
L’albero a cui tendevi la pargoletta mano,/il verde melograno da’ bei vermigli fior,/nel muto orto solingo/rinverdì tutto or ora/e giugno lo ristora di luce e di calor.
Non è del tutto casuale questa citazione. Il famoso verso appartiene a una scena (ambientata a scuola) del film. Oppure il nome Vermiglio permette di scalare nella memoria di altri ricordi di liceo, quando d’estate la gita scolastica era a Camogli ma d’inverno era al Tonale. E Vermiglio è il comune che ha come frazione staccata il Passo del Tonale. Che segna il confine tra il Trentino e la Lombardia, quindi un posto in cui anche i dialetti si mescolano un po’. Anche questa non è una cosa del tutto casuale perché lo straordinario dialogo nel film – tutto sottotitolato – ha un po’ di cadenza trentina ma poi parole e tonalità sono dell’alta Lombardia. Il sub-ricordo (per me furono vacanze estive nell’anno di Vola Colomba, più o meno in paesi con quella maestà di boschi e povertà di case (del Trentino di una volta) riguarda anche la lunga valle che discende dal paese (la Val di Sole, che confina con la Val di Non) e da cui partono i torrenti, tra cui la Vermigliana che finisce nel Noce che a sua volta finisce nell’Adige. Come sapete, la scuola di una volta mandava a memoria le poesie e insegnava la geografia. Eccomi qui.
Le sorprese maturate nella doppia visione del film comunque non sono pochissime.
Prima di farvi qualche cenno vi faccio sentire la breve presentazione che il critico e docente universitario Roy Menarini ha fatto al Tgr dell’Emilia-Romana della Rai[1] del film Vermiglio, l’opera seconda della regista bolzanina Maura Del Pero, cresciuta professionalmente a Bologna. La vicenda è ambientata tra il 1944 e il 1945 e segue la vita della numerosa famiglia Graziadei, il padre un maestro di montagna, le tre figlie, Lucia, Ada e Flavia al centro delle vicende.
La mia prima sorpresa è stata che mi sono davvero commosso seguendo il film attentamente, anche se ero stanco ed era tardi la prima volta. Mia figlia ama il cinema anche démodé, apprezza risvolti anche introspettivi, ha deferenza per la creatività autorale e artistica. Ma dopo una cauta percezione del lento procedere ha appoggiato la testa sulla mia spalla destra e ha dormito fino al secondo tempo. Ho dedotto che il film determina una divaricazione generazionale.
Ho poi trovato anche qualche dissidio tra i critici.
Federico Pontiggia su Cinematografo scrive:
“La previa esperienza documentaristica, qui con maggiore ambizione, libero arbitrio e calma, ha portato ad una ottima direzione d’attori, a una preziosa tenuta anti-spettacolare, a una mirabile poesia di guerra e pace. Abbiamo una signora autrice: Maura Delpero”.
Davide Turrini, al contrario, sul Fatto quotidiano scrive:
“Si nota un tentativo produttivo dispendioso e ardito di creare un set in quanto i fotogrammi di Vermiglio sembrano vuoti. Ci chiediamo se sia un’indecisione o un’inesperienza di regia, se siano troppo invadenti le scelte dei direttori della fotografia e degli operatori di macchina sul set”.
Siccome vorrei lambire le ragioni per cui questo film porterà alle giurie di Los Angeles una interpretazione della italianità, ritengo opportuno cercare anche un commento internazionale. E leggo pertanto il giudizio di Jessica Kiang di Variety:
“L’economicità è la parola d’ordine di questo film, ingannevolmente formalista dalla regia al montaggio, dalle composizioni musicali ai costumi, contribuendo a un’affascinante rimozione narrativa, smentita dalla nitidezza ravvicinata delle immagini”.
E scrive anche che:
“Sebbene la storia sia ambientata nel passato, essa «agisce come un futuro segreto di famiglia che si svolge al presente» attraverso «lo spirito delle madri, delle sorelle e delle figlie che sono venute prima e dopo, e che si sono fidate delle imperiose montagne per mantenere i loro segreti”.
E così ricorro anche ai miei amici trentini. Uno, un sociologo che ha casa in Val di Non, mi dice:
“Ma sai, tu hai visto una famiglia, un rito domestico, una storia con una tragedia interna a cui corrispondeva una tragedia esterna. Sì’, certo, senza un plot non ci sarebbe stato il film Ma il protagonista vero è quel genere di montagne. Non quelle che ingenerano l’ardimento dolomitico delle arrampicate, da scalata al cielo. Quelle massicce, più larghe che alte, che dominano tutto, il paesaggio, i riti, i ricordi. E che oggi raccontano una storia di pace, di radicamento, di un bisogno grande proprio di quei ritmi, di quelle lentezze”.
Come ho detto, ho rivisto il film a Roma. Il pensiero che ritorna su questo film è che se la realtà – non di mille anni fa, nel Medioevo, ma di 70 anni fa, nel momento di sdoganare il mondo dalle atrocità della guerra – corrispondeva a quei ritmi, a quei riti, a quel rapporto valoriale e comportamentale (dagli intrecci di parole, sguardi e gesti alla “fraternità delle mense” e stiamo parlando della cornice estetica, senza entrare nella vicenda specifica), beh, è evidente che nella nostra storia nazionale contemporanea non abbiamo dato molto tempo alla metabolizzazione di processi che sono stati rapidamente sepolti. Ma la cui memoria così antropologicamente recuperata non solo non ci deprime ma ci scalda il cuore e ci può anche emozionare.
Da questo punto di vista il film di Maura Delpero ci mette dentro un protagonismo di ingredienti ormai rari.
Ne scrive Paola Casella (che spunta scene cruciali del film):
“Ognuno a Vermiglio ‘ha bisogno del suo cielo’ anche quando le circostanze non sembrano dargliene diritto, e cerca un po’ di ‘cibo per l’anima’, che sia un disco o un mazzo di fiori, un bacio rubato, uno sguardo carico di desiderio. Ognuno incontra ostacoli e dinieghi ingiusti. Ognuno trasgredisce un poco, e un poco accetta il proprio destino e quei limiti, invece delle possibilità, che la società e persino la scuola ti ‘insegnano’“.
Ecco, Vermiglio caso mai ci connette a un tipo di film che pur ha dato un colore particolare al cinema italiano (sia pure quasi 50 anni fa). Parlo di Ermanno Olmi e del suo Albero degli Zoccoli (che vinse la Palma d’oro a Cannes nel 1978). Ma questo ci obbliga a fare i conti con un approccio che forse non ha più le condizioni per essere generazionalmente riconoscibile. Forse la nostra commozione viene anche per l’estrema estraneità in cui ci troviamo di fronte a tali racconti. Lo dico tanto per spiegare sia la mia commozione che il pur breve cedimento al sonno di mia figlia. E allora che arringa – diciamo morale – ci possiamo immaginare davanti alla giuria degli Oscar?
Lo chiedo ancora al breve scritto di Paola Casella, che chiunque può trovare in rete digitando questo nome insieme al titolo del film. Colgo due riflessioni:
“Quello che Delpero descrive è un piccolo mondo antico ancora riconoscibile ma già lontano nella sua gentilezza, nel suo calore famigliare e nell’afflato educativo del padre, pur condito di eccessiva severità e di quel pragmatismo che gli fa escludere dal proseguimento degli studi Ada, volenterosa ma non “’portata’”.
“Delpero sa sempre dove posizionare la cinepresa per catturare in modo pudico e olistico la vita di questo microcosmo domestico e agreste, ottenendo da tutti gli interpreti (sotto il coaching sapiente di Alessia Barela), compresi i bambini più piccoli, recitazioni spontanee e profondamente credibili (un unicum nel cinema italiano contemporaneo), e uniformando la maggiore esperienza di Tommaso Ragno (efficacissimo nel ruolo del padre) o Sara Serraiocco con quella del resto di un cast scovato fra le montagne del Trentino Alto Adige”.
E adesso in conclusione è venuto il momento di dare la parola all’autrice, a Maura Delpero (da La Repubblica, nel giorno della designazione agli Oscar):
“Forse Vermiglio può essere percepito dentro una tradizione italiana di cui andiamo fieri, anche se con un linguaggio suo, dovuto al fatto che all’epoca c’erano poche registe e quindi con una diversità. A Milano le sale erano piene di giovani. Alcuni con i genitori. A Toronto è stato accolto con calore. C’era discendenti dei nostri emigrati. Nel mondo c’è grande nostalgia del popolo dei migranti che siamo stati. Costretti a partire per sempre”.
Ecco, vi ho proposto qualche flash per chi ha visto il film e vuole confrontarsi con qualche spunto interpretativo. Per chi non ha visto il film e magari qualche parola può indurre ad andare a vederlo. E poi per questo film in sé, messaggero di un frammento di creatività italiana che si sta per misurare con il mondo. Argomento che al cuore di questo testo vorrei trattare come un serio evento culturale ed etico. Senza onta per aspetti retrogradi di quell’Italia povera che eravamo ma, con la fierezza di cui parla l’autrice, con l’orgoglio di una ricostruzione che oggi racconti l’Italia – più benestante, più moderna, più secolarizzata, ma anche con valori più opachi e con perdita eccessiva di pudore – ecco un’Italia che senta con orgoglio la rappresentatività e l’energia di quelle pur evaporate radici. Insomma, una bella operazione di sfida a chi immagina l’Italia solo attraverso le sue patine lussuose, senza qui rinnegare la moda, il design, le Ferrari, ma con fastidio per gli eccessi comunicativi dell’edonismo sfrontato e dei soldi compra-tutto. Una sfida condotta da questo cinema della memoria che una giovane finissima cineasta tratta con il silenzio dei boschi innevati, la convivenza con le vivifiche stalle, un sublime parlottio dei bambini e la resilienza a fronte della crudeltà dell’epicentro del racconto.
Con questo cinema andiamo a Hollywood, dove questa carta (da Sciuscià ad Amarcord a La ciociara) ha fatto breccia altre volte. Per questo, facciamo tanti auguri a Vermiglio e alla sua bella squadra.
19 ottobre 2024
Uscito com Podcast per Il mondo nuovo, 19 ottobre 2024. Cfr. https://stefanorolando.it/?s=Vermiglio.
[1] https://www.rainews.it/tgr/emiliaromagna/video/2024/10/vermiglio-il-film-di-maura-delpero-dal-trentino-verso-gli-oscar-d0ac7fc8-fd9a-43b7-ac2c-35624a4f22f8.html.