Era un mercoledì, il 30 aprile 1975, quando l’ultimo elicottero americano lasciò Saigon. Con il ritiro degli Stati Uniti da quel Paese del Sud-est asiatico, finiva la guerra in Vietnam: un conflitto che s’era innescato, prima sotto traccia, poi in modo esplicito, sulla conquista dell’indipendenza, ottenuta cacciando nel 1954 i francesi, potenza coloniale. Nei vent’anni successivi, il Vietnam fu improbabile ‘terra di confine’ tra l’Occidente, il sud, e la sfera d’influenza sovietico-cinese, il nord; tra la democrazia, malamente rappresentata da ‘uomini forti’ debolissimi, e il comunismo.

Vinsero i vietcong, che erano la gente del posto; perse la macchina da guerra americana, molto meglio armata, ma molto meno motivata. L’immagine di quell’elicottero posato sul tetto dell’ambasciata e preso d’assalto da una folla disperata e abbandonata, delusa e terrorizzata, che voleva essere portata via dal proprio Paese, ha segnato un’intera generazione, come altre immagini di quel conflitto: i mucchi di cadaveri, donne e bambini, della strage di Mylai; la bambina bruciata dal napalm che scappa nuda dal suo villaggio in fiamme; il vietcong ucciso a freddo, con un colpo di pistola in testa in una via di Saigon da un generale sud-vietnamita; le manifestazioni di protesta contro la guerra negli Usa e in Europa.

Scene reali e cinematografiche che si sovrappongono e s’intrecciano: la carica degli elicotteri di Apocalypse Now; e le foreste bruciate di Forrest Gump; e il terrore dei marines di Platoon. La colonna sonora universale è ‘We shall over come’ di Joan Baez, quella italiana ‘C’era un ragazzo’ di Gianni Morandi.
Vietnam: dopo quella guerra, mai più guerre
Dopo quella guerra, mai più guerre. Il Mondo, in quella primavera 1975, sembrava potere evolvere in un posto migliore: il Vietnam diventava un unico Paese, dopo l’intesa raggiunta tra Usa e Nord e firmata a Parigi nel 1973 dal segretario di Stato Henry Kissinger e dal plenipotenziario Le Duc To, che valse ad entrambi un Nobel per la Pace per avere “messo fine alla guerra in Vietnam e ristabilito la pace”, nonostante le polemiche per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità fatti in quel conflitto.
E dire che, prima di ricevere il premio, nel settembre di quell’anno, Kissinger fu l’ispiratore del golpe in Cile che rovesciò il legittimo presidente di sinistra Salvador Allende e insediò al potere il generale golpista Augusto Pinochet.
Negli Stati Uniti, la libertà di stampa segnava punti: il giornalismo d’inchiesta del New York Times e del Washington Post aveva prima svelato agli americani e al Mondo intero le atrocità della guerra in Vietnam, pubblicando i Pentagon Papers; e, poi, con l’inchiesta Watergate del Washington Post, aveva costretto alle dimissioni il presidente impostore Richard Nixon. In Europa, piaceva la parola ‘distensione’: si avvicinava la stagione degli accordi di Helsinky, che, nel 1975, avrebbero sancito un miglioramento delle relazioni fra l’Occidente e il blocco comunista.
Dopo quella guerra, basta guerre. Qualcuno ci credeva: l’inno dell’ora era ‘Image’ di John Lennon, scritta nel 1971 e che recita ‘Imagine all the people living life in peace’. Ma ci sarebbe voluto poco per rendersi conto che la pace era l’illusione di un momento: la guerra fra Iran e Iraq, un decennio e forse un milione di morti; l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Urss; l’apice, almeno incruento, della guerra fredda e il dissolvimento dei regimi comunisti.
E ancora: la guerra del Golfo del 1991, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq; i conflitti nella ex Jugoslavia lungo tutti gli Anni 90; l’invasione dell’Afghanistan, questa volta ad opera degli Stati Uniti, nell’ottobre del 2001, neppure un mese dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001; l’invasione dell’Iraq, ancora ad opera degli Usa, nel 2003; le Intifade e le fiammate di guerra ricorrenti tra gli israeliani e i loro vicini; e poi la guerra civile in Siria e le guerre contro l’Isis alla metà degli Anni 10.

E, infine, il flashback dell’immagine del 30 aprile 1975 nell’agosto 2021: la ritirata – una fuga – degli occidentali dall’Afghanistan; gli aerei in partenza dall’aeroporto di Kabul presi d’assalto da migliaia di persone che volevano lasciare il loro Paese, temendo il ritorno all’oscurantismo del regime dei talebani. Washington, incapace di costruire uno Stato resiliente in vent’anni di occupazione, aveva fatto patti con le milizie integraliste, aveva loro lasciato un Paese e un popolo. Un accordo di pace criminale concluso l’anno prima da Donald Trump e messo in atto con improvvisazione letale da Joe Biden.
E tutto questo senza contare i ‘conflitti invisibili’, di cui ci disinteressiamo perché non li vediamo, in Africa, tra Etiopia ed Eritrea, nel Tigrai, in Somalia, nel Darfur; e ancora nello Yemen, a Timor, un po’ ovunque nel Mondo.
Però, abbiamo forse pensato nel 2021, quando l’ultimo aereo lasciò Kabul, adesso è davvero finita: basta guerre. E, invece, sei mesi dopo c’eravamo di nuovo dentro e non ne siamo più usciti: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, poi la reazione di Israele – dilatata e sproporzionata, nei tempi e nelle dimensioni – agli attacchi terroristici in territorio israeliano che, il 7 ottobre 2023, fecero 1200 vittime circa e portarono alla cattura di oltre 250 ostaggi, una sessantina dei quali non sono stati ancora restituiti – vivi o morti – alle loro famiglie.
A forza di ripetere che lui le guerre le avrebbe risolte in un lampo, appena insediato, Donald Trump aveva creato un’aspettativa, una speranza. Invece, erano le sue solite fanfaronate. In Medio Oriente, il suo insediamento ha coinciso con una tregua durata due mesi; ma, quando si trattava di passare alla seconda fase del percorso concordato, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha preferito tornare al conflitto, rinsaldando così la sua maggioranza sostenuta dagli integralisti religiosi – Trump avalla e incoraggia con bombardamenti estemporanei sulle postazioni Huthi in Yemen -.
Ora, la distrazione del momento sono i colloqui con l’Iran: il primo round s’è svolto sabato scorso, a Doha; il secondo sarà sabato prossimo, a Roma.
In Ucraina, tregue parziali parevano cosa fatta due volte; e non se n’è mai fatto nulla. Trump bistratta il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e blandisce il presidente russo Volodimir Putin. La strage di Sumy domenica? Un errore. La resistenza di Kiev? Una scelta sbagliata: mai mettersi contro uno dieci volte più grande di te. La pace? In queste ore, una chimera.
Incapace di fare la pace dove c’è la guerra, Trump scatena un nuovo conflitto, incruento, ma potenzialmente devastante: una ‘guerra dei dazi’ planetaria. Da tre anni in qua, l’unico che ci crede davvero alla pace e la invoca e si dà da fare per innescarla è Papa Francesco: la sua voce è oggi debole, ma il suo messaggio resta forte.