Una biografia contro gli stereotipi. Scritta non in forma assertiva, non per difesa d’ufficio, ma facendo parlare i fatti.
Paolo Franchi non è un giornalista succube delle carte o di ciò che gli storici considerano l’ineludibile della ricerca, cioè le fonti intese come riscontri documentali. Sa, certo, dove andare a verificare qualche nome o qualche data. Ma la trama delle storie che racconta è abitualmente un nodo sostanziale del vissuto. Questa sua ruminazione affettiva – fatta di frequentazioni anche strette, dunque di un rapporto distillato tra verità e dicerie – si sente nella scrittura di questo L’irregolare, edito da Marsilio, che ha l’eleganza di sottotitolare Una vita (non La vita) di Gianni De Michelis[1]. Perché proprio quel vissuto, in una comunità unita ma anche frammentata, solidale ma anche conflittuale, con legami forti ma anche non priva di diffidenze e rotture di percorsi, è all’origine non solo della storia dichiarata, ma anche della storia intenzionale.
Resta legittimo lo spazio per altre e diverse narrazioni. Questa è certamente preziosa. Il tratto narrativo è disteso, spesso empatico: l’autore di sé dice, a metà della storia, di essere stato
“un comunista non ostile al PSI”.
E tiene sotto controllo con chiarezza le tre fasi biografiche di Gianni De Michelis centrali: contesto formativo; lotta politica; gestione del potere.
Accurata la prima parte, meno nota ai lettori, sulle radici, le precondizioni. Famiglia, tradizione religiosa (protestante), comunità di legami, parterre umano con i suoi nessi inscindibili, fattori di carattere e profilazione di una personalità. A poco a poco si svela un percorso di successo (con la conclusione che non appare a nessuno come quella di un giallo, perché il declino del percorso – che tocca il protagonista appena dopo i cinquant’anni – è di pubblica notorietà) ed è una narrazione che mantiene le sottili contraddizioni di immagine che si profilano fin dall’inizio. Una personalità timida, che sarà ricordata come uno sbruffone. Una personalità colta e sempre in ricerca che sarà ricordata come un edonista che improvvisa. Un costruttore meticoloso di riforme e di rigenerazioni di interesse collettivo che sarà ricordato come parte di un ceto politico egocentrico. Queste antinomie vengono più chiare dopo aver letto il libro di Paolo Franchi. Ma da tempo pensavo che a qualcuno dovesse toccare di disegnarle con cura. Quindi una biografia contro gli stereotipi. Scritta non in forma assertiva, non per difesa d’ufficio, ma facendo parlare i fatti. Quando si passa al trattamento della lotta politica, il percorso “di successo” è magari in testa al protagonista (giovani e in squadre diverse, lui e Claudio Petruccioli, sono paradigmaticamente raccontati con la supponenza del nostro che, cosciente del senso delle rispettive appartenenze, vede il suo futuro da ministro e vede cose egregie ma marginali per il suo compagno di strada) ma l’autore sa che ciò va dimostrato pezzo per pezzo, fatto per fatto. Per un lungo tratto sarà lotta. Paradigmatico – di pari peso – è il rapporto tra il Giani e il Toni, due veneti nella crisalide della politica. Cioè, della politica italiana post-cantiere costituzionale, dunque a partire dagli anni Sessanta, ma uno (De Michelis) con visioni di governo, l’altro (Toni Negri) con visioni teorico-eversive.
Gli anni della formazione
Lo schema del racconto di questa parte centrale della biografia è articolato in tre punti:
- lo spazio molto stretto per esprimere leadership nazionale costituito da una città come Venezia un po’ prigioniera del passato e anche dei suoi numeri limitati, che rende necessario a Gianni De Michelis costruire il campo d’azione nell’area vasta che va da Mestre a Marghera a Padova);
- l’opportunità (com’era al tempo, tra caso e vocazione) di salire sul treno dell’UNURI (e dell’UGI che ne è parte) senza sapere ancora che quella sarebbe stata la palestra della classe dirigente che avrebbe centralmente sostituito i costituenti;
- il legame scientifico familiare (il padre ingegnere, la madre chimico-farmaceutica che vuole tutti e cinque figli in cattedra e lui chimico industriale) che obbliga la politica (e poi anche la visione geopolitica) al condizionamento della razionalità e di un certo pragmatismo, come sarà per tutto il Novecento anche la crescita del riformismo socialista milanese, turatianamente connesso alla cultura civile del Politecnico (ed è questo – a differenza del legame post-azionista di Claudio Signorile – il nesso di De Michelis con l’ingegner Riccardo Lombardi).
I binari di scorrimento di quella “storia di successo” mi sembrano sostanzialmente questi. Agendo su queste piattaforme (e trovando le basi elettorali per disporre di una “rappresentanza”) Gianni De Michelis costruisce il suo progetto ministeriale e poi il perfezionamento di ruolo come negoziatore europeo.
Il capitolo della “lotta politica”
È un capitolo del saggio davvero intenso, delimitato, molto territorializzato. Nelle pagine di Franchi scorre. Ma nei ricordi dell’Italia degli anni Settanta va a balzi. In particolare, tre grandi balzi.
Teorie, territorio, terrorismo. Proviamo ad inventarci queste tre T per cercare uno spazio in cui incastonare un progetto riformista, non profilato nei salotti ma nel cantiere della ristrutturazione industriale del tempo.
La tenaglia è prima di tutto ideologica. Dunque, l’opposto estremismo e le sue complicità anche in parti del sistema dei partiti. Che è uno dei luoghi duri tra PCI e PSI e il loro generale confronto di interpretazione del cambiamento sociale. Gianni De Michelis non si nasconde, il luogo di riferimento è la fabbrica, non si camuffa, salvo farsi crescere i capelli, che sono una sua componente estetica “di lotta”, pur spiegata con il motivo che
“non ha tempo per tagliarseli”, anzi non ha tempo per “prendersi cura di sé”.
Nella sua autobiografia dei Settanta in verità questa è l’estetica di una sua metafora sugli Argonauti, una sorta di specie umana di scopritori-lottatori.
Il secondo tratto è un viaggio congressuale di partito, molto noto, molto descritto. Il viaggio Roma Midas-Torino. È la scalata interna, quella dei colonnelli lombardiani a fianco dell’astro nascente, Craxi. In mezzo c’è il caso Moro, che fa frizionare la tenaglia catto-comunista del compromesso storico. Tutto il nuovo gruppo dirigente socialista, organizzato in correnti, forma qui il progetto di up-grading (dei leader e dei quadri) che deve in due anni trasformare un partito secondario (finito nel 1976 al 9,6 per cento) in un partito egemonico (lo sarà in poco più di sei anni arrivando alla guida del governo)[2].
Di questo “tratto” (che Franchi incornicia nel fatto centrale del mandato a organizzare il PSI[3]) conservo un frammento di colloquio-intervista personale, più o meno del tempo. Lo riduco a una breve citazione di Gianni De Michelis:
“In questo tratto di tempo il Psi deve affrontare tutti i temi in sospeso: il rapporto partito-massa, il rapporto partito-società, il rapporto partito-Stato. Non si è riusciti a farlo organicamente perché il partito era ancora condizionato, nelle sue iniziative politiche, dalle scelte di disponibilità nei confronti della DC. Doveva maturare la svolta politica dell’alternativa che avrebbe poi reso perseguibile la riorganizzazione, ovvero la rifondazione del partito”[4].
La gestione dell’egemonia, potrebbe chiamarsi la terza fase fino alla staffetta con il nuovo decennio, gli Ottanta. Tratto biennale che porta in conclusione la separazione di Gianni De Michelis dalla corrente lombardiana, cosa che modifica i rapporti di forza nell’ambito della direzione socialista, lega in modo più interdipendente lo stesso De Michelis alla figura di Craxi ormai centrale nel quadro politico nazionale. Si prepara il background dell’azione di governo che vedremo articolarsi prima sul terreno delle regole dell’economia e del lavoro (più che il presidio della specificità del mercato, a Gianni De Michelis è assegnato il presidio dell’economia partecipata e l’influenza delle regole nella politica del lavoro) e poi nello scenario euro-globale della politica estera.
Un bulldozer creativo dal Ministero delle Partecipazioni Statali al Ministero del Lavoro
“Via Sallustiana” è la sfumatura con cui viene chiamato il Ministero delle Partecipazioni Statali – denominazione che corrispondeva alla proprietà morale storica dei democristiani e innanzi tutto dei fanfaniani (in partibus infidelium, dice Franchi) – in cui il nick-name del ministro è Bulldozer.
È dappertutto. È nelle fabbriche a nord e a sud. Ridisegna consigli di amministrazione, in generale discutendo e riassegnando le mission. Introduce rudimenti valutativi in prassi che prima erano deleghe a valvassori. Difficile mettere a confronto quella fase con la fase delle privatizzazioni di dieci anni dopo, sulla scorta di indebitamenti fuori controllo e sui dubbi dell’interesse nazionale per la liquidazione oltre alle banche anche dell’IRI. Ma è certo il pensiero dell’autore nel titolo stesso del paragrafo: “Un super imprenditore a via Sallustiana”. E la citazione che sta in mezzo alle cronache di quel periodo (1980-1983, con quattro premier, Alessandro Forlani, Francesco Cossiga, Giovanni Spadolini e Amintore Fanfani) è forse tra le ultime di una certa Italia, anni dopo rimpianta da chi tenta ancora di parlare di competitività italiana:
“L’elemento strategico per decidere il futuro di un’economia industriale è la grande industria”[5].
La visione del bulldozer è – volendo scegliere le dominanti – produzione e competizione[6].
La successiva esperienza al Ministero del Lavoro (1983-1987, tutti e quattro gli anni di premierato Craxi) resta in qualunque cronaca di sintesi della politica italiana ricordata per il taglio dei punti della scala mobile e il conseguente referendum abrogativo del 1985 promosso dal PCI.
Un doppio fronteggiamento di successo, socioeconomico e politico, ma carico di polemiche. Il bulldozer qui – dice Franchi – diventa
“il tessitore di negoziati, non chi impone ukase”.
Cioè, anche i ministri maturano, come la frutta. Ma l’asse con Pierre Carniti (Cisl) è forte perché fondato sul mettersi prima di tutto nella pelle delle attese sociali, lavoratori e famiglie. L’operazione avrà consenso se taglierà l’inflazione. Come fu. E come sarebbe forse stata, se completata, la riforma delle pensioni, un tavolo fortemente investito di progettualità.
Dalle trasformazioni occupazionali e professionali dell’Italia già orientata all’economia post-industriale nascerà in questo periodo la creativa intuizione dei giacimenti culturali – anche qui con insorgenze polemiche, concettuali ma anche corporative (la cultura non è prodotto, figuriamoci se può diventare “giacimento”, eccetera) – che costituì il contributo di Gianni De Michelis al rinnovamento delle politiche culturali ancora separate tra dinamiche produttive e dinamiche intellettuali[7].
Per gli anni Ottanta la penna di Paolo Franchi non trova quasi più gli spazi per annotare tutto il “collaterale” dell’azione energetica di governo di Gianni De Michelis Qui solo per memoria:
- il basket italiano, cinque anni di Lega professionale portata a livelli di fruizione di massa, con contratti importanti con la Rai e raddoppio della popolarità di uno sport prima elitario;
- il progetto di Esposizione Universale a Venezia con schiere di amici e nemici (Luigi Zanda contro Massimo Cacciari), che finì in delusa ritirata lasciando due eserciti in una polemica eterna e il clamore delle tonnellate dei rifiuti a San Marco dopo il mega concerto dei Pink Floyd che doveva essere la prova generale di tenuta di una città che Gianni De Michelis voleva rianimare con la gioventù del mondo, non cartolinizzare. Quel giorno – lo ricordo di persona, il 15 luglio 1989, di fronte al Palazzo Ducale su un palco galleggiante alto 24 metri e trainato da una chiatta di 90 metri per 30 – 200 mila spettatori presenti e 100 milioni di telespettatori nel mondo, ma con una regia di racconto del “disastro ecologico” del giorno dopo che portò al massacro il progetto. Progetto che riprese vita in Italia a Milano solo 25 anni dopo.
- E ancora il caparbio trasferimento del modello Aspen statunitense in un radicato format italiano di Aspen Italia (dal 1984 al 1992, dedicato alla formazione della classe dirigente e all’agenda del dibattito sull’innovazione), poi consolidato da Giuliano Amato in staffetta, che ancora oggi regge sul format disegnato da Gianni De Michelis.
Qui, in queste storie, inframmezzate dalla passione per il ballo, stanno tutti gli appunti che mettono a fuoco la scelta del titolo della biografia: l’irregolare. C’è l’impeto nelle cose e c’è quello spirito che in Sicilia si chiama del “futtitinni”. Ma Gianni De Michelis era “ministro”. Un giorno sì e un giorno no, c’erano alzate di scudi per sconvenienze di forma. Tipo quella delle prolungate chiacchiere con il ricercato Oreste Scalzone a Parigi (Craxi lo obbliga a una lettera di scuse a Pertini se vuol restare ministro). Qualcuno lo disegna Jekill&Mr.Hyde. E lui però finisce difeso da un altro a suo modo irregolare come Valentino Parlato su Il Manifesto.
Gli anni della geopolitica italiana
Gli anni di Gianni De Michelis alla guida della Farnesina contengono due pietre miliari della storia europea del Novecento. Il 1989, cioè la caduta del muro di Berlino e con essa i pilastri fondamentali degli accordi di Yalta che avevano retto più di quarant’anni di equilibri pur se sotto l’etichetta della “guerra fredda”; il 1992, cioè il negoziato dell’Unione europea che va sotto il nome di “accordi di Maastricht” che creano il vero mercato interno senza barriere e danno vita alle misure di crescita sostanziale della sovranità europea (tra cui l’euro). De Michelis è al Ministero degli Esteri del governo Andreotti, dopo essere stato anche vicepresidente del Consiglio dei ministri con il governo De Mita.
Con Craxi non più a Palazzo Chigi ma con i socialisti che restano con forte negozialità nelle coalizioni di centrosinistra, la competenza europea e internazionale si presta a incrociare energia e visione di uno dei politici italiani che agisce meno tatticamente in ambiti così delicati, ma interpretando le svolte della storia e aggiungendo al presidio diplomatico la lettura complessiva geopolitica delle relazioni internazionali.
Nel saggio di Paolo Franchi questa parte – che contiene anche il terzo ambito di attenzioni strategiche di Gianni De Michelis concentrato fortemente sull’evoluzione del ruolo della Cina – rappresenta la parte più fitta del racconto che termina con un ultimo paragrafo pure intitolato al “mondo”, ma questa volta è un mondo simbolico dominato da questioni interne:
“Quando ti casca il mondo addosso”.
In America Gianni De Michelis punta su Gary Hart, in chiave alternativa a Ronald Reagan. Sulla Russia punta sulla difficile possibilità che Michail Gorbacev regga nella transizione dopo lo sconquasso. Le due carte, che rappresentano comunque intuizioni interessanti, non reggono alla prova della realtà.
Regge piuttosto lo schema di negoziato stretto con la Germania attraverso cui anche l’Italia favorisce l’operazione della riunificazione tedesca. Un alto costo, fuori dai parametri che verranno poi seguiti per l’ampliamento a est, assunto interamente dalla Germania ovest. Ma, in cambio, ci si guadagna l’adesione di Helmut Kohl all’istituzione dell’euro, per un paese come la Germania che aveva nel marco una sorta di religione civile. Anche qui Gianni De Michelis opera con i suoi collateralismi che non hanno mai scopo elettorale e di consenso, ma tendenzialmente sono parte del suo ampliamento relazionale e cognitivo. Franchi da spazio alle iniziative che De Michelis assume con presidente di Aspen Italia ma anche come presidente (lo sarà dal 2001 al 2011) dell’Ipalmo.
Per l’Italia che negozia tendenzialmente con la Germania forse anche per un certo contenimento dell’iniziativa mediterranea dei francesi, le aree di influenza interna al sistema euromediterraneo (attribuendo alla Germania quella che chiama “l’area baltica”, all’Italia quella che chiama “l’area balcanica”) tengono conto anche della difficoltà di ruoli in territori in ebollizione, appunto i Balcani e come sempre il Medioriente (Gianni De Michelis vagheggia – anzi rivagheggia, dopo Marco Pannella – ad un certo punto il possibile ingresso di Israele nell’Unione Europea). In ogni caso il periodo è fittissimo di eventi, ma troppo corto per distendere ruolo e visione.
Gli anni Novanta sono avviati e con essi, dal 1992 si formano nodi che diventeranno strangolanti per la prima Repubblica. Al congresso del PSI di Bari del 1991, Gianni De Michelis è certamente ancora protagonista di primo piano della stessa transizione socialista. Franchi annota qui il passo falso di Bettino Craxi sul referendum sulla “preferenza unica” (proposto da Mario Segni) con gli italiani che non danno retta alla sua proposta di “andare al mare”, vanno a votare al 62 per cento e danno il loro sì al 96 per cento. Ma, al di là dei fatti congiunturali, il terremoto è alle porte. E la nota di Franchi ricavata da un’intervista con Stefano Lorenzetto è che
“ancora una volta De Michelis non si rivela un profeta di sventure”[8].
Il “mondo che gli cade addosso”
Eccoci all’epilogo. 52 anni, di punto in bianco 34 avvisi di garanzia. Ci saranno due patteggiamenti (Enimont e cose del Veneto, bretella Mestre e aeroporto Marco Polo), dal resto ne esce più o meno indenne, ma in sostanza trasfigurato.
In tutto questo ambaradam (insulti in strada a Venezia per giunta) non perde né la calma né alcuni riti “leggeri” (c’era stata anche un’idea faraonica di festeggiamento di compleanno in un castello di Praga su cui lo stesso Craxi aveva preso posizione censoria). È in giro per il mondo
“da grande viaggiatore, informatissimo e curioso, non da turista più o meno di lusso”[9].
Ma la storia che segue (tra cui un mandato europarlamentare, 2004-2009) appartiene a un declino al tempo stesso politico, generazionale e istituzionale. Storia di molti, storia ancora non lenita. In cui si innesta un ultimo commento. Paolo Franchi inserisce un dettaglio diciamo emozionale e culturale nella breve ma mirata introduzione al suo testo. Una delle due citazioni che fa (l’altra è di Boris Johnson, allora capo della diplomazia britannica ma si iscrive in un altro film) con mia sorpresa è costituita da un passaggio di un mio intervento in memoria di Gianni De Michelis dopo la sua scomparsa[10].
Mi ha sinceramente colpito questa scelta, non per fatto personale, ma perché quello spunto non aveva avuto molti riscontri nella “comunità socialista”, pur con qualche segnale di apprezzamento o per lo meno di disponibilità ad approfondire, per una sorta di coraggio di
“andare oltre al vittimismo” e alla “elaborazione del lutto politico proiettata tutta sul mondo esterno”
(cito i casi di riscontro). Quale era la supposizione? Che il convincimento del gruppo dirigente socialista nell’età di Craxi fosse legato a una sorta di ottimismo assertivo sull’esito stesso del loro progetto. Certo, ciò non avveniva per superficialità o per infantilismo. In fondo respingeva un po’ il tratto umorale della cupezza critica della sinistra di tradizione comunista e al tempo stesso il tratto di vaghezza circa la positività del destino per quell’eccesso di cultura della mediazione propria dei cattolici in politica. Ma era finita un poco alla volta anche ad allontanare ogni percezione di rischio. Insomma, provavo a segnalare un diffuso sentimento della certezza del buon fine, cioè di essere comunque nel film giusto, di non percepire il rischio di una “catastrofe”. Forse per mancanza di allenamento (ripeto, anche per reagire ad una tenaglia di atteggiamenti della politica degli altri) riguardanti il modo di fronteggiare la “sofferenza”. Quella “sofferenza” che la politica professionale conosce e percepisce per tutti e quindi anche pe sé (potremmo dire il “sangue e merda” evocato da Rino Formica) ma che può anche rimuovere, prima per fatto politico, alla fine per paradigma.
La tesi è discutibile. Ma per la verità poi non è stata discussa. Paolo Franchi la ripesca come ipotesi per allungare lo scavo sulla figura che appariva la più “sfrontata” nelle sue certezze.
E lo fa anche perché conosce il sottofondo di una personalità (e anche di altre personalità). Tanto che introduce l’idea che Gianni De Michelis la percezione del rischio, anche del rischio di una catastrofe, ce l’avesse eccome. Ma – aggiunge – la viveva come rischio di un destino del gruppo dirigente in forma indistinta, non per sé.
A chi qui scrive, nel 2009, rispondendo a quesiti di una ricerca sull’evoluzione della politica comunicativa dei socialisti dagli anni Settanta agli anni Novanta, Gianni De Michelis contestualizzava molte cose riguardanti l’eurosocialismo, ma attorno al ripensamento della percezione della crisi di sistema era stato piuttosto netto:
“L’unico errore che facemmo fu quello di pensare che avremmo avuto molto più tempo”[11].
In ogni caso l’argomento resta un po’ appeso, magari con elementi irrisolti, ma comunque ispira la parte finale della narrazione di questo libro, parte legata all’energia che per altri vent’anni, dopo lo tsunami di Tangentopoli, tiene Gianni De Michelis legato a una febbrile progettazione di cui la cornice è l’analisi dell’inevitabile trasformazione della scena planetaria. Progettazione – scrive Franchi – con tre nuovi capitoli in agenda: la passione per la demografia storica; le conseguenze meno visibili e di lungo termine della fine del patto di Yalta; l’avvento di una governance multilaterale di un mondo multipolare.
Insomma, magari non leggiamo in questa biografia la storia di un profeta, ma più probabilmente quella di un chimico prestato alla politica: celebre il detto del chimico e biologo Antoine-Laurent de Lavoisier
“nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma».
Roma, 27 luglio 2024
Scritto per Mondoperaio (7-8), luglio-agosto 2024, pp. 87-92. Cf. https://stefanorolando.it/?p=9604.
[1] Paolo Franchi, L’irregolare. Una vita di Gianni De Michelis, Venezia, Marsilio, 2024, 208 p.
[2] Franchi in queste pagine centrali del saggio ferma l’accento sul 1980 e sull’ingresso di Gianni De Michelis al ministero delle Partecipazioni Statali in via Sallustiana per dedicare due o tre righe alla formazione di tutta la sua squadra: Giorgio Casadei, Barbara Ceolin, Domenico Cacopardo, Gianfranco Mossetto, Bartolomeo Manna, Michele Di Pace, Luciano Rufino, Guglielmo Trillo. In altra pagina annota i fedelissimi politici: Renato Brunetta, Roberto Spano, Maurizio Sacconi.
[3] “Craxi, uomo politico cresciuto, a parte la parentesi ugina, tutto dentro l’apparato, assegna il compito cruciale a De Michelis, che viene da un‘altra corrente e un’altra storia, affidandogli la responsabilità dell’organizzazione del partito”.
[4] Gianni De Michelis, “Un dibattito influente sul XLI Congresso”, in Stefano Rolando “Caro Avanti! – Mille lettera dall’interno del PSI. Prefazione di Bettino Craxi, introduzione di Claudio Signorile, Venezia, Marsilio, 1979, 223 p.
[5] Paolo Franchi, L’irregolare. Una vita di Gianni De Michelis, op. cit. alla nota 2.
[6] L’esperienza triennale che tocca chi qui scrive nel 1982 fu quella di essere spedito – in distacco dalla Rai – a dirigere un’azienda in declino (con il compito di unirla ad un’altra del tutto collassata) portandola a livello produttivo nell’immediato e a livello competitivo nel triennio assegnato. Su questa base venne scelto un giovane portatore di qualche chance di creare alleanze tra cinema e televisione. Mandato quindi dalle Partecipazioni Statali (anche la Rai ne era parte) a fare il dg dell’Istituto Luce. Elementi di incubo, ma fierezza infinita della scommessa, dignitosamente perseguita.
[7] Nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta questo “contributo” si misurerà con una certa dialettica anche interna al Partito Socialista tra un esponente di formazione “filosofica” (Claudio Martelli, allora responsabile della Cultura) e Gianni De Michelis di formazione “industriale”. Linguaggi, priorità, aspetti concettuali. Ma in comune l’idea di generare un nuovo equilibrio tra pubblico e privato, cioè tra aspetti istituzionali e di mercato.
[8] Stefano Lorenzetto, “In cerca d’autore”, in AA.VV. Parole per Cesare. Con l’ultima intervista inedita di Stefano Lorenzetto, Venezia, Marsilio 2019, 278 p.
[9] Paolo Franchi, L’irregolare. Una vita di Gianni De Michelis, op. cit. alla nota 2.
[10] Stefano Rolando, “Maratona oratoria per Gianni De Michelis. Racconto di una bella generazione, ma risposta fragile al perché sia finita male”, Linkiesta, 15 giugno 2019.
[11] Le risposte di Gianni De Michelis sono da pagina 124 a pagina 127, in Stefano Rolando, Una voce poco fa. Politica, comunicazione e media nella vicenda del Partito Socialista Italiano dal 1976 al 1994, Venezia, Marsilio, 2009, 296 p.