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Usa 2024: increspature della democrazia fra guerre continue

Scritto lo 03/07/2024 per La Voce e il Tempo uscito lo 04/07/2024 in data 07/07/2024 e, in versioni diverse, per il Corriere di Saluzzo dello 04/07/2024 e per il blog fi Media Duemila https://www.media2000.it/usa-2024-biden-giu-trump-a-gonfie-vele-increspatura-democratica/

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Usa 2024 e guerre – Joe Biden inciampa in una serataccia, nel dibattito in diretta televisiva con Donald Trump; e Trump, che denuncia contro di lui complotti giudiziari, ha il vento in pappa di sentenze della Corte Suprema che appaiono talora paradossali e che vanno tutte a suo favore. La corsa presidenziale di Usa 2024 sembra scivolare su un piano inclinato verso un esito quasi scontato: la vittoria di Trump e il ritorno alla Casa Bianca del magnate campione di frottole ed ego-centrismo, di populismo e rivalsa.

C’è euforia nel campo repubblicano. C’è panico in quello democratico. In Europa e nel Mondo, c’è un intreccio di sentimenti diversi: chi spera nel ritorno del presidente isolazionista e imprevedibile, per restare al potere – Benjamin Netanyahu -, per vincere la guerra – Vladimir Putin – o per avere una sponda a Washington – sovranisti e populisti d’ogni dove -; e chi paventa che l’increspatura nella democrazia degli Stati Uniti sia contagiosa.

Le peripezie elettorali negli Stati Uniti e le scadenze europee, col Regno Unito al voto e la Francia al ballottaggio, distolgono l’attenzione dei media e del pubblico dalle guerra che, però, continuano in Medio Oriente e in Ucraina, anche se non sono più le aperture dei notiziari. Dalle urne europee escono verdetti diversi: le destre avanzano in Francia e, in misura minore, nel Parlamento europeo; in Gran Bretagna, è l’ora del ritorno al potere dei laburisti dopo 14 anni di governi conservatori.

Nella Striscia di Gaza, gli israeliani hanno di nuovo ordinato ai palestinesi di lasciare Khan Younis, la seconda città, dove Hamas si sarebbe riorganizzata e dove l’esercito israeliano prepara un’operazione massiccia, mentre, a nord, al confine con il Libano, la tensione resta forte tra Israele e Hezbollah, nell’attesa del ballottaggio per le presidenziali in Iran. Delle trattative per un baratto ‘tregua / liberazione degli ostaggi’ s’è perso il filo.

In Ucraina, il presidente Volodymyr Zelensky riceve la sorprendente visita del premier ungherese filo-russo Viktor Orban – l’Ungheria ha appena preso la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue -, poche ore dopo che Kiev avrebbe sventato un colpo di Stato incoraggiato da Mosca: gli arrestati, almeno quattro, progettavano – non è chiaro come e con che mezzi – di inscenare una sommossa nella capitale il 30 giugno, di prendere il controllo del Parlamento e di rovesciare i vertici politici e militari.

Proseguono attacchi russi con missili e droni su installazioni ucraine e sporadiche reazioni  ucraine in territorio russo. E, dopo Mosca, anche Kiev si rivolge ai detenuti per rimpinguare le linee al fronte: tremila sarebbero già stati arruolati, altri 27 mila potrebbero esserlo. Di negoziati, neppure l’ombra.

Usa 2024: Biden, corsa fuori controllo, voci dal Congresso

Dopo il flop nel dibattito con Trump di giovedì scorso e le sentenze avverse della Corte Suprema, “la corsa alla Casa Bianca del presidente Biden – scrive la Cnn – sta andando fuori controllo…. E, da un giorno all’altro, dall’alba al tramonto, le cose vanno peggio…”. Il panico “a bassa intensità” diffusosi nei ranghi democratici dopo “la terribile performance” in diretta televisiva inizia a creare “controversie” nel partito, dove si sentono voci critiche.

L’ex speaker della Camera Nancy Pelosi, una che di ottuagenari se n’intende – ha 84 anni e rimase speaker ben oltre gli 80 -, sostiene che “è legittimo” interrogarsi sulle condizioni fisiche e mentali del presidente candidato: vuoti di memoria, assenze, incertezze lessicali e deambulatorie “sono episodi – chiede – o sono il frutto di una condizione psico-fisica deteriorata?”.

Dalla Casa Bianca, arriva una risposta stizzita al giornalista che ripropone le domande di Pelosi: Biden non soffre di Alzheimer o di qualsiasi forma di demenza o malattia degenerativa, afferma, visibilmente irritata, la portavoce Karine Jean-Pierre. “E – aggiunge, alludendo a Trump – spero che facciate la stessa domanda anche all’altro tizio”.

Il New York Times riferisce che i passi falsi del presidente diventano più ricorrenti e preoccupanti e cita testimonianze di persone che l’hanno incontrato a porte chiuse: Biden appare sempre più spesso  confuso o fiacco e perde il filo delle conversazioni. Gli episodi imbarazzanti non sono prevedibili, ma sono più frequenti quando è in mezzo alla folla o è stanco per un programma particolarmente intenso – è accaduto al G7 in Puglia -.

Come a molte persone della sua età, a Biden, che compirà 82 anni a novembre, dopo il voto, capita di storpiare una parola, dimenticare un nome o confondere un fatto, ma le défaillances si sono fatte negli ultimi tempi più frequenti, più pronunciate, più percepibili e più preoccupanti.

Il deputato democratico del Texas Lloyd Doggett è il primo esponente del Congresso a chiedere formalmente a Biden di fare un passo indietro: “Il presidente deve prendere la decisione dolorosa e difficile di ritirarsi”. Alla Camera, Doggett rappresenta il collegio di Lyndon Johnson, il presidente che si fece da parte nel 1968 e non si ricandidò, per assumere su di sé la responsabilità della guerra in Vietnam (ma i repubblicani vinsero lo stesso le elezioni).

Anche il deputato dell’Illinois Mike Quigley, che molto s’è battuto per l’ok della Camera agli aiuti all’Ucraina voluti da Biden, invita il presidente a riflettere sul rischio che una sua disfatta faccia perdere ai democratici pure il Congresso: “Dobbiamo essere onesti con noi stessi e ammettere che la performance nel dibattito non è stata solo una brutta sera”.

Usa 2024: Trump, processi al macero, verdetto rinviato

Ma i segnali più preoccupanti di una slavina democratica arrivano dai fronti giudiziari, quelli che, un anno fa, sembravano annunciare la fine di Trump, sommerso da una raffica di rinvii a giudizio: micce bagnate, anzi boomerang, per i tentennamenti di una giustizia che non è uguale per tutti e dà ai ricchi più chances di cavarsela e per la collusione di magistrati scelti fra i propri amici. I processi in fieri non saranno celebrati, e nepopure iniziati, prima dell’Election day, il 5 novembre, e rischiano di finire al macero.

E, dopo la sentenza sull’immunità della Corte Suprema, il giudice del processo di New York, in cui Trump è già stato riconosciuto colpevole di tutti i 34 reati ascrittigli, ha rinviato dall’11 luglio, com’era previsto, al 18 settembre il verdetto sulla pena, accogliendo una sollecitazione della difesa condivisa dall’accusa. Perché?, ci si chiede, visto che quel processo riguarda reati compiuti prima che Trump divenisse presidente e che, quindi, non possono essere coperti dall’immunità.

Il giudice Juan M. Merchant non è certo sospettabile di partigianeria ‘trumpiana’. Ma il fatto è che l’inchiesta contro il magnate si basa anche su elementi relativi a quando Trump era presidente, la cui accettabilità va ora vagliata alla luce della sentenza della Corte Suprema: se cioè il presidente stava agendo come presidente, sia pure per motivi abietti – ma sarebbe, comunque, immune – oppure come privato cittadino per proteggere i propri interessi. Un distinguo difficile da farsi e la cui valutazione è soggetta a eccezioni e contestazioni. Di qui la decisione del giudice di prendersi tempo per vagliare la nuova situazione, prima di pronunciarsi.

Va male solo ai sodali del magnate ex presidente. Lunedì 1 luglio, il suo guru e consigliere speciale Steve Bannon s’è consegnato a un carcere federale del Connecticut per colletti bianchi, per scontare una pena di quattro mesi per oltraggio al Congresso – non si presentò a testimoniare davanti a una commissione d’inchiesta sul 6 gennaio 2021 -. E martedì 2 luglio, il suo avvocato Rudy Giuliani, sindaco di New York l’11 settembre 2001, è stato radiato dall’albo di New York dopo che una corte ha stabilito che fece ripetute false dichiarazioni sostenendo che le elezioni del 2020 erano state ‘rubate’.

Usa 2024: la sentenza della Corte Suprema sull’immunità e le sue conseguenze

Pronunciando una sentenza per molti aspetti controversa e gravida di rischi per la democrazia Usa, lunedì 1 luglio la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto parziale immunità al presidente per atti inerenti alle sue funzioni. “La natura del potere presidenziali vale all’ex presidente l’assoluta immunità dall’essere perseguito per le azioni compiute nell’ambito della sua autorità costituzionale”, afferma la Corte in un parere a maggioranza, i sei giudici conservatori, tre dei quali scelti da Trump, contro i tre giudici progressisti.

L’attesissima sentenza della Corte Suprema, che è stata pronunciata nell’ultimo giorno utile, prima della pausa estiva, apre la porta, nel parere di minoranza scritto dalla giudice Sonia Sotomayor, a interpretazioni autoritarie dell’ufficio presidenziale, consentendo al presidente d’ordinare senza tema azioni giudiziarie contro i suoi oppositori o di cancellare azioni giudiziarie nei suoi confronti, sapendo di non potere poi essere chiamato a renderne conto. La giudice Sotomayor chiude il parere in dissenso con queste parole: “Per timore per la nostra democrazia, io dissento”.

Invece, Trump ha accolto in termini entusiastici il verdetto della Corte, parlando di una sentenza “scritta in modo brillante e saggia”, che lo rende “orgoglioso di essere americano”. Biden è stato molto critico: per lui, i giudici supremi creano “un pericoloso precedente”, che “potrebbe cambiare in modo fondamentale il più potente incarico al Mondo”. Lui esprime l’impegno a rispettare i limiti dei poteri presidenziali, pur se, alla luce della sentenza, non vi sono “praticamente limiti” a quanto un presidente può fare.

Il verdetto della Corte Suprema ha l’effetto di rimandare alla casella di partenza i tre processi in cui Trump è accusato di reati federali compiuti mentre era presidente: le iniziative per rovesciare l’esito del voto del 2020 con l’insurrezione dei suoi sostenitori il 6 gennaio 2021; e le pressioni esercitate sulle autorità della Georgia perché gli “trovassero i voti” per ottenere la vittoria nello Stato; e anche la vicenda dei documenti segreti sottratti alla Casa Bianca e custoditi nella sua casa di Mar-a-lago, in Florida, che Trump sostiene di avere desecretato quand’era presidente senza che però ve ne sia prova.

Gli inquirenti dovranno rivedere i capi d’accusa, nel caso del 6 gennaio già intaccati da una sentenza della Corte Suprema resa pubblica venerdì scorso, e distinguere fra le azioni del Trump presidente e quelle del privato cittadino, foss’anche candidato alla Casa Bianca. Trump deve attualmente rispondere di quattro capi d’accusa per avere tentato di ribaltare i risultati elettorali sobillando un’insurrezione per indurre il Congresso, riunito in sessione plenaria, a rovesciare l’esito del voto.

 L’esercizio richiederà tempo e sarà esposto a ulteriori contestazioni, ricorsi in appello ed eventualmente deferimenti alla Corte Suprema. Il che esclude che i processi in sospeso a Washington, ad Atlanta – dove la posizione del pm è soggetta a verifiche non ancora concluse – ed in Florida – dove la giudice ‘trumpiana’ ha già provveduto per conto suo a dilatare i tempi d’avvio del giudizio – possano cominciare prima delle elezioni del 5 novembre.

E Trump, se sarà rieletto, potrà ordinare alla giustizia federale di chiudere in procedimenti avviati. Oppure, potrà concedersi il perdono per i reati compiuti.

Il punto di partenza della pretesa d’immunità di Trump era che, senza qualche forma di immunità, gli ex presidenti sarebbero sottoposti a persecuzioni politicamente motivate. Cosa che lui ha più volte minacciato di fare, se sarà eletto, nei confronti dell’attuale presidente Joe Biden, che dovrà rispondere – ha detto – “dei suoi crimini”.

La sentenza di ieri è solo l’ultima di una raffica di verdetti della Corte Suprema che hanno ‘minato’ le basi giuridiche di centinaia di processi condotti o intentati contro i facinorosi del 6 gennaio e hanno intaccato i poteri pubblici in diverse materie, pure in campo mediatico, riducendo la capacità di regolamentazione delle autorità federali e statali. Le sentenze, a giudizio dei media liberal Usa, aprono le porte a ulteriori contestazioni da parte di lobbies e movimenti anti ‘big government’.

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Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche.Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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