La ritorsione dell’Iran arriva alle 01.20 di notte ora locale, tra il 7 e l’8 gennaio, alla stessa ora in cui era stato ucciso a Baghdad, nella notte tra il 2 e il 3 gennaio, il generale iraniano Qasem Soleimani: Teheran lancia missili di propria produzione Ghiam e Fateh, che colpiscono due basi irachene usate da militari americani.
Un attacco atteso e che mantiene per il momento circoscritto all’Iraq la fiammata di guerra tra Usa e Iran, accesa dall’attacco deciso da Donald Trump la settimana scorsa, di cui non c’era la necessità e le cui giustificazioni attribuite all’intelligence statunitense appaiono fumose agli stessi americani.
Forese, le ragioni del magnate showman divenuto presidente stanno altrove: negli Stati Uniti, non nel Medio Oriente, nel processo d’impeachment e nella prospettiva delle elezioni presidenziali. L’escalation si fermerà qui? Lo si può sperare, ma non pronosticare, anche perché l’impulsività (apparente?) di Trump rende tutte le previsioni scritte sulla sabbia.
Ecco, in sintesi, i principali passaggi dell’escalation tra Iran e Usa, ognuno dei quali è praticamente stato accompagnato da inasprimenti delle sanzioni di Washington contro Teheran e da un aumento dello spiegamento militare americano nell’area.
Tutto comincia dalla campagna elettorale 2016, quando il magnate allora candidato tuona contro l’accordo sul nucleare concluso da Barack Obama con l’Iran, insieme a Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Germania e Ue, e s’impegna a uscirne. Cosa che fa tra il 2017 e il 2018, reintroducendo contestualmente le sanzioni anti-iraniane che Obama aveva levato e, anzi, inasprendole. Teheran continua a lungo a osservare l’intesa, sollecitata a farlo dagli altri firmatari, che la considerano sempre valida, ma poi decide di sforare, sia pure simbolicamente, cioè restando sempre lontano dalla soglia d’utilizzo militare, i limiti di arricchimento dell’uranio.
Il 12 maggio, quattro navi, tra cui tre petroliere, sono danneggiate da misteriosi attacchi nel Golfo. Gli Stati Uniti accusano l’Iran. Il 20 giugno, la Guardia rivoluzionaria iraniana rende noto l’abbattimento di un drone americano che aveva violato lo spazio aereo iraniano vicino allo Stretto di Hormuz. Trump annuncia una rappresaglia, ma vi rinuncia all’ultimo minuto.
Il 14 settembre, attacchi con droni e/o missilistici, rivendicati dai ribelli huthi dello Yemen sostenuti dall’Iran provocano violenti incendi a due importanti impianti petroliferi sauditi. Washington accusa Teheran, che nega ogni coinvolgimento.
A metà novembre, suscita l’ira di Teheran il sostegno di Washington alle proteste di piazza esplose nell’Iran dopo un aumento dei prezzi del carburante. Quasi in parallelo, violente proteste scuotono l’Iraq: i manifestanti contestano il governo e l’ingerenza iraniana.
Il 29 dicembre, gli Stati Uniti lanciano attacchi aerei contro basi di un gruppo filo-iraniano in Iraq, uccidendo almeno 25 miliziani. I raid sono la risposta ad attacchi contro interessi Usa in Iraq, in uno dei quali, il 27 dicembre, era stato ucciso un ‘contractor’ americano.
Per tutta risposta, razzi cadono in prossimità di una base che ospita soldati americani a Taji, a nord di Baghdad; e Iraq, Iran e Russia denunciano concordi la violazione Usa della sovranità irachena, “un atto di terrorismo” per Teheran, “inaccettabile e controproducente” per Mosca. Con la politica del ‘pugno sul tavolo’, già sperimentata in Siria a due riprese, Trump eccita, com’era scontato, l’opinione pubblica irachena, contro gli Stati Uniti e innesca proteste anti-americane, nel contesto d’un Paese scosso da mesi di tumulti sociali, economici e politichi.
Il 31 dicembre, l’ambasciata degli Usa a Baghdad, un edificio immenso, è sotto attacco: assediata per l’intera giornata, una torretta va in fiamme, la protezione fornita dalle autorità irachene non è certo a tenuta stagna, anche se siamo dentro la Zona Verde della capitale irachena, l’area inviolabile delle Istituzioni e delle ambasciate.
Trump avverte Teheran che potrebbe “pagare un prezzo molto alto. A Mar-a-Lago si tiene una sorta di consiglio di guerra, con i segretari agli Esteri Mike Pompeo e alla Difesa Mark Esper. Alla fine, gli Usa danno la colpa a Teheran degli incidenti anti-americani e decidono d’inviare subito centinaia di militari in Medio Oriente, avanguardia di contingenti più numerosi. Mostrati i muscoli, Trump sembra stemperare le tensioni e tornare a toni meno bellicosi.
Dura poche ore: l’attacco che uccide Soleimani, fra gli artefici della sconfitta dell’Isis, il sedicente Stato islamico, e altri infiamma di nuovo la situazione e la Regione, dove gli Stati Uniti appaiono gli alleati incondizionati d’Israele e dell’Arabia saudita.
Uccisione Soleimani: la mezzanotte della guerra è più vicina
L’ossessione anti-iraniana e l’innata vocazione alle decisioni impulsive di Donald Trump spingono le lancette dell’orologio della pace bruscamente vicine alla mezzanotte della guerra: con l’uccisione del generale comandante le Guardie della Rivoluzione e di altri comandanti militari iracheni e iraniani fuori dall’aeroporto di Baghdad, il mondo diventa improvvisamente un posto molto più pericoloso. Chi vi racconta che quell’azione è stata condotta nel nome della sicurezza vi racconta una panzana.
Il livello d’allarme si alza bruscamente, i corsi dell’oro e del petrolio vanno su, le borse giù: segnali di tensione e, soprattutto, d’incertezza . Ci vorrebbe la lucidità, e l’autorità per stemperare animosità e rivendicazioni, ma i principali protagonisti sono più incendiari che pompieri, con i leader iraniani che annunciano vendetta. I comprimari? L’Europa ha forse lucidità, ma le manca l’autorità – e pure la volontà – di farla valere.
Una gravissima escalation nelle relazioni già tesissime tra Stati Uniti e Iran, un passo sconsiderato verso il baratro di un conflitto dalle prospettive non bene calcolate: con formula quasi identica, ‘major escalation’, considerazioni simili accompagnano i primi racconti dell’attacco americano fatti da New York Times, al Jazeera, Le Monde, El Pais, The Guardian.
L’azione ordinata dal presidente Usa Trump, probabilmente cogliendo un’opportunità segnalata dall’intelligence e dai militari, getta tutto il 2020 in una prospettiva sinistra di guerra e di sangue: rischia d’innescare un conflitto nella regione e di avere come corollario sussulti di terrorismo un po’ ovunque nel mondo. E c’è il dubbio che il magnate presidente anteponga i suoi calcoli elettorali a ogni altra considerazione. Come, del resto, la vicenda dell’Ukrainagate, all’origine della procedura d’impeachment in atto, ha già dimostrato, su un livello di pericolosità incommensurabilmente inferiore.
Uccisione Soleimani: i contraccolpi dell’attacco
I giorni che seguono sono gonfi di tensioni, lutti, minacce, esplosioni, con epicentro a Baghdad e forti scosse percepite a Teheran e a Washington, ma anche a Bruxelles, dove la Nato sospende l’addestramento delle truppe irachene – troppo alto il rischio d’incidenti, in queste ore – e ovunque altrove nel Medio Oriente e in Europa. A Roma c’è preoccupazione per le truppe italiane, in Iraq, ma anche in Libano e in Libia, dove la tensione si alza in parallelo, ma seguendo proprie dinamiche.
La coalizione anti-Isis ridimensiona l’attività: un’azione surrettiziamente compiuta in funzione anti-terrorismo integralista ha come effetto di ridurne il contrasto. Il Parlamento di Baghdad vota l’invito al governo, con una mozione non vincolante, di cacciare dal Paese i militari stranieri.
Tra Iraq e Iran, centinaia di migliaia di persone partecipano alle esequie funebri itineranti e infinite di Soleimani, scandendo lo slogan “morte all’America”. Ci s’interroga non ‘se’ ma ‘quando’ scatterà la ritorsione iraniana; e gli Usa rinforzano i loro dispositivi militari nella Regione, coinvolgendo effettivi di stanza ad Aviano, nel Friuli, e utilizzando lo scalo di Sigonella.
L’entità delle truppe mobilitate non lascia presagire, per ora, operazioni offensive su larga scala. E, anzi, il Pentagono dice che non sono previsti per ora nuovi attacchi. Piuttosto, si cerca di prevedere e di parere le azioni iraniane. Al momento, “non esiste alcuna specifica, credibile minaccia dall’Iran”, afferma il Dipartimento per la Sicurezza interna, segnalando, però, il rischio di un’ondata di cyber attacchi e dando istruzioni a Istituzioni e imprese su come ripararsi.
Secondo il vice comandante della Guardia rivoluzionaria iraniana, contrammiraglio Ali Fadavi, Washington invia un messaggio per vie diplomatiche a Teheran chiedendo che la rappresaglia sia “proporzionata”.
L’attività diplomatica è intensa: il ministro degli Esteri iraniano Zarif dice all’omologo russo Lavrov che “l’azione Usa è una palese violazione del diritti internazionale” e afferma che “l’Iran non vuole un escalation della tensione”. Ma lo stesso Zarif prospetta al segretario generale Onu Guterres “conseguenze incontrollabili”. E l’ambasciatore dell’Iran all’Onu Ravanchi avverte che “azione militare chiama azione militare”, consegnando una lettera al Consiglio di Sicurezza. Teheran denuncia nell’uccisione di Soleimani “un atto di terrorismo”: “Gli americani sono ipocriti: pretendono di combattere il terrorismo, ma in realtà combattono coloro che combattono i terroristi”.
E’ tutto un intreccio di incontri e telefonate. L’Unione europea, che chiude le porte quando i buoi sono scappati, indice una riunione d’urgenza dei ministri degli Esteri per venerdì 10. I ministeri degli Esteri di numerosi Paesi chiedono ai loro concittadini di evitare viaggi in Iran e Iraq. La nazionale statunitense di calcio annulla uno stage in Qatar per sperimentare le installazioni del Paese in vista del Mondiale del 2020.
Una storia di errori e di lutti
Quando gli Usa colpiscono nel Golfo, a torto o a ragione – e questa volta senza una ragione – fanno spesso errori, lutti e danni. Con conseguenze disastrose, in tutta la Regione. Sempre che la fiammata di guerra innescata dall’assassinio del generale iraniano Qasim Soleimani resti circoscritta all’Iraq, teatro anche della reazione iraniana.
Ore 04.20 del 13 febbraio 1991, prima dell’alba a Baghdad: una bomba intelligente, ma non troppo, sganciata durante un bombardamento statunitense sulla capitale irachena, centra il rifugio antiaereo n. 25 nel quartiere di Al-Amirya e penetra fin dove circa 1000 persone, quasi tutte donne, bambini, vecchi, attendono che la tempesta di fuoco dal cielo cessi. L’esplosione uccide almeno 408 persone, molte ridotte in cenere. Il Pentagono ammetterà l’errore. L’operazione Desert Storm, che all’inizio di marzo avrebbe condotto alla liberazione del Kuwait dall’invasione irachena, era in corso da circa un mese: guerra sotto l’egida dell’Onu per ovviare a una palese violazione del diritto internazionale.
Notte tra il 19 e il 20 marzo 2003: un violento bombardamento missilistico scuote Baghdad, la luce dei bagliori delle esplosioni squarcia l’oscurità per le telecamere. E’ l’operazione ‘awe and shock’, terrorizza e sconvolgi. Il presidente George W. Bush l’ha ordinata in anticipo su quanto previsto perché l’intelligence è sicura di potere colpire ed eliminare Saddam Hussein, sui cui movimenti quella notte avrebbe informazioni precise. L’attacco causa un numero incalcolato di vittime civili, ma non danneggia in modo vitale gli apparati civili e militari iracheni e lascia indenne il rais. Segna, però, l’inizio dell’invasione dell’Iraq, di cui, 17 anni dopo, l’Iraq, il Medio Oriente, il Mondo intero pagano ancora le conseguenze.
Notte tra il 2 e il 3 gennaio 2019: un attacco con droni ordinato dal presidente Donald Trump uccide – ancora a Baghdad – il generale Soleimani, elementi del suo staff, altre persone. Nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, l’Iran compie una ritorsione, colpendo con missili due basi irachene dove vi sono soldati Usa.
La presenza militare degli Stati Uniti in Medio Oriente e in particolare nel Golfo è una storia lunga, contrassegnata da errori e tragedie. Che questo capitolo, di cui nessuno avvertiva il bisogno, se non qualche dottor Stranamore a Washington e magari a Tel Aviv e a Riad, si chiuda qui.