La Turchia di Erdogan “si muove tra Oriente e Occidente”: lo scrive, su AffarInternazionali.it, Laura Mirachian, già ambasciatrice d’Italia, fra l’altro, a Damasco, una delle più acute osservatrici e conoscitrici delle dinamiche internazionali del conflitto siriano. Dove la Turchia ha giocato e gioca tutte le parti in commedia, anzi in tragedia, ma sempre con lo stesso minimo comune denominatore: la spregiudicata ricerca del proprio asserito interesse nazionale, l’affermazione – ad ogni costo – della propria dimensione di potenza regionale e, soprattutto, il consolidamento e il rafforzamento della posizione dominante del presidente e del suo partito in politica interna, nutrendo i sentimenti d’insicurezza della popolazione e ricercandone il consenso anche a prezzo di una guerra.
Così, gli interlocutori della Turchia ci perdono la bussola, mentre Racep Tayyip Erdogan sa bene qual è il suo Nord: Ankara è una capitale della Nato e l’esercito turco è il maggiore dell’Alleanza, dopo quello statunitense, ma compra armi russe progettate contro i sistemi d’arma occidentali; formalmente, resta candidata all’adesione all’Ue, ma pare avere abbandonato questo percorso – anche se, come vedremo, l’opinione pubblica continua ad avere aspirazioni europee: è stata ed è parte della coalizione coagulata dagli Stati Uniti contro gli integralisti islamici in Siria, ma ha dato armi al sedicente Stato islamico e ne ha comprato il petrolio; è contro il regime di Bashar al-Assad e s’è messa contro Israele dopo esserne stata interlocutore privilegiato; condivide con Mosca e Teheran piani di suddivisione della Siria in aree d’influenza; sfrutta l’acquiescenza di Washington per attaccare i curdi, che sono stati la lunga mano dell’Occidente contro l’Isis, poi fa patti con Mosca (e con Damasco) per controllare una fascia di territorio siriano lungo la sua frontiera dopo averla svuotata di curdi; minaccia il veto su decisioni della Nato – è storia d’una settimana fa, al Vertice dell’Alleanza a Londra – se le organizzazioni curde anti-turche non sono bollate come terroristiche.
In tutto questo, anzi nonostante tutto questo, e un record di mancato rispetto dei diritti fondamentali, a partire dalla libertà di stampa e di espressione, Erdogan si conserva aperte tutte le porte, magari con strumenti vagamente ricattatori: a Mosca e a Washington, è ricevuto senza imbarazzi; l’Europa gli è debitrice del controllo di milioni di rifugiati siriani che restano in territorio turco, senza muovere verso l’Ue, come facevano fino al 2016 – la Turchia non fa da argine per motivi umanitari: è stata compensata con sei miliardi di euro -.
La pista dei soldi e delle armi (o viceversa)
Un alto responsabile dell’apparato militare-industriale russo, Dmitry Shugayev, diceva il 6 dicembre alla Interfax: “È probabile che Russia e Turchia firmino un contratto per la consegna d’un altro lotto di sistemi missilistici di difesa aerea S-400 nel 2020 … Ci stiamo lavorando: entrambe le parti desiderano continuare la cooperazione in questo settore”.
Appena 48 ore prima s’era concluso a Londra il Vertice atlantico, dove Erdogan aveva assicurato agli alleati, senza proprio convincerli, che la scelta di campo della Nato non aveva nulla a che vedere con l’acquisto di armi da Mosca. La Turchia ha già acquistato quattro batterie S-400, la cui consegna è stata completata il 23 ottobre, in anticipo sul previsto.
Oltre che sui missili, Russia e Turchia negoziano su aerei da combattimento e altri sistemi d’arma russi: “Siamo pronti ad offrire prezzi competitivi per i nostri caccia”, assicura Shugayev. Washington non apprezza la spregiudicatezza turca sul fronte militare–commerciale; e, per intanto, ha bloccato la fornitura ad Ankara degli F35 e minaccia sanzioni (però, sa di un abbaiare alla luna: quelle adottate dopo l’avvio dell’operazione anti-curdi nel Nord-Est della Siria erano acqua fresca e furono revocate alla prima tregua).
“Le nostre buone relazioni con la Russia e con altri Paesi non sono un’alternativa ai nostri rapporti con gli alleati Nato. Al contrario, sono complementari”, sostiene Erdogan. Che minaccia di bloccare i piani dell’Alleanza per la difesa della Polonia e dei Paesi baltici se gli alleati non riconoscono come terroriste le milizie curdo-siriane Ypg.
Il patto marittimo con la Libia ennesimo fronte
Come se non bastassero i fronti di contenzioso aperti, la Turchia ha concluso, a novembre, un’intesa con la Libia in materia di “cooperazione militare e di sicurezza” marittima: firmatari, Erdogan e Fayez al-Sarraj, il capo del governo libico riconosciuto dalla comunità occidentale. L’accordo riconosce ad Ankara il controllo su un’ampia porzione del Mediterraneo centrale e orientale, parti della quale sono rivendicate anche da Grecia, Cipro ed Egitto. L’intesa interseca pure la vicenda delle rivendicazioni petrolifere turche al largo di Cipro.
Per Erdogan, si tratta di un “diritto sovrano di Turchia e Libia”, su cui il suo Paese “non intende discutere”. Il premier greco Kyriakos Mitsotakis vuole, invece, sollevare la questione, alla Nato come all’Ue, dove, al Vertice di Bruxelles di giovedì e venerdì, può sperare di ottenere attenzione e solidarietà.
L’ammiraglio Fabio Caffio, che è stato fra i primi a richiamare l’attenzione sulla questione, scriveva su AffarInternazionali.it: “Ankara s’allea con Tripoli per uscire dall’isolamento nella disputa marittima che la oppone a Cipro e Grecia”, concordando “la delimitazione delle rispettive Zee (Zone economiche esclusive). La decisione era nell’aria da qualche mese dopo che Gran Bretagna, Ue, Israele e Stati Uniti erano scesi in campo a difesa dei giacimenti di gas attorno a Cipro”. Però, “la mossa turca costituisce una minaccia per i diritti della Grecia sugli spazi marittimi circostanti Creta e il Dodecanneso e presenta varie implicazioni politico-giuridiche divenendo un fattore di escalation delle tensioni. Costringe pure l’Italia a ponderare con attenzione le proprie azioni per non finire, inconsapevolmente, nella palude del contenzioso.
Ue/Turchia: un’opinione pubblica ancora favorevole all’adesione
Nonostante i contenziosi e le manipolazioni, gli screzi e le forzature, l’opinione pubblica turca, che segue patriotticamente Erdogan nel conflitto contro i curdi, resta, invece, tendenzialmente incline all’Ue e all’adesione, nonostante questa prospettiva appaia oggi lontana.
Carlo Sanna, un giovane ricercatore, osserva che il quadro che emerge dal confronto tra dati raccolti da diversi istituti turchi ed europei, relativamente alla percezione dell’Europa, è ben diverso dai toni di critica, accusa e rifiuto che permeano sempre di più la retorica di Erdoğan. Sul tema più generale dell’ingresso della Turchia nell’Ue, la differenza tra opinione pubblica e narrazione governativa è netta: la percentuale di chi sostiene l’adesione oscilla oggi tra il 53% e il 61%. Sebbene si sia distanti dal 73% del 2005 – l’anno in cui ebbero inizio i negoziati per l’ingresso di Ankara -, è significativo che più della metà della popolazione resti favorevole all’adesione, in netta crescita rispetto al 49% del 2017.
I ricercatori dell’Università Kadir Has di Istanbul (Khü) hanno inoltre osservato come gli elettori più “europeisti” siano quelli del maggior partito d’opposizione Chp (il 74% è pro-adesione), mentre tra i più euroscettici spiccano quelli del partito di Erdogan, l’Akp (58%). È interessante evidenziare, inoltre, che il gradimento dell’Ue tenda a crescere all’aumentare del grado d’istruzione e del livello di reddito.
Tramite l’Eurobarometro, strumento statistico della Commissione europea, è possibile avere un maggiore livello di dettaglio della percezione dell’Europa in Turchia. Anche in questo caso i dati mostrano un miglioramento rispetto agli anni precedenti dell’immagine dell’Ue, che è percepita – citando il politologo turco Hakan Yavuz – come “spazio di opportunità e prosperità”: tra le caratteristiche che i turchi associano più frequentemente all’Ue, primeggiano “benessere economico”, “democrazia” e “libertà di movimento”. Ciò è confermato dai sondaggi della Khü: più di un turco su due pensa che l’adesione sarebbe un beneficio per la Turchia; tra questi, il 78% dà peso soprattutto all’aspetto economico, e il 55% ai temi dei diritti umani e della democrazia. Sono dunque queste le caratteristiche più evidenti e attrattive, che contribuiscono a proiettare un’immagine solidamente positiva dell’Europa in Turchia (solo il 19% afferma di averne una percezione negativa).
E’ su dati del genere che si può basare la reciproca speranza di una Turchia europea, capace d’eludere le sirene dell’egemonia regionale e i richiami dell’integralismo religioso e di sentire l’attrazione d’un polo europeo di benessere economico e rispetto dei diritti umani. Non oggi, ma forse domani.