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Iran: proteste, repressione, vittime, giorni di sangue

Scritto per la Voce e il Tempo uscito il 28/11/2019 in data 01/12/2019 e, in versione più breve, per il Corriere di Saluzzo del 28/11/2019

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Chi di proteste ferisce, di proteste perisce: che sia spontanea, come dicono i manifestanti, o indotta, come sostengono le autorità, la legge del taglione delle manifestazioni contro regimi e governi s’abbatte sull’Iran, che, dopo essere stato indicato come burattinaio delle tensioni interne tra Iraq e Libano, deve fare fronte a un’ondata di contestazioni innescate dal ‘caro benzina’ – un po’ il pretesto delle jacqueries dell’anno scorso in Francia con i ‘gilets jaunes‘ -.

Il governo di Teheran risponde con una fermezza che è spesso violenza. Al 25 novembre, Amnesty calcolava in 143 le vittime delle proteste in corso dal 15 novembre e denunciava il “deliberato uso letale della forza da parte delle forze di sicurezza iraniane”. Le morti – sostiene in un comunicato l’organizzazione internazionale – risultano quasi tutte causate da armi da fuoco. Viene pure riferito che un uomo è morto dopo aver inalato gas lacrimogeni e un altro dopo essere stato picchiato: “Amnesty crede che il bilancio delle vittime sia sensibilmente più alto e continua ad indagare”.

Prigioniera del principio di non ingerenza, e pure condizionata dal riflesso di non legarsi le mani, dovesse mai succedere qualcosa di analogo a casa propria, visto che il mondo è tutto in ebollizione, la comunità internazionale reagisce in modo “cauto” e “sfortunatamente inadeguato”: Amnesty chiede che “condanni queste uccisioni nei termini più forti possibili” e consideri quanto sta avvenendo “il letale e completamente ingiustificato uso della forza per schiacciare il dissenso”.

E’ un autunno caldo per mezzo mondo: a Hong Kong, le manifestazioni vanno avanti dall’estate e crescono d’intensità e di violenza, come cresce di violenza la repressione; la fascia pacifica dell’America latina è stata scossa da contestazioni dall’Ecuador al Cile passando per la Bolivia; pure in Medio Oriente i focolai insurrezionali si accendono l’uno dopo l’altro; e l’Europa non è immune dai bacilli del fermento, in Francia, dove i ‘gilets jaunes’ restano attivi e sono sempre più ‘casseurs’, alla Repubblica ceca; e, se vogliamo, le sardine sono l’italica propaggine di queste manifestazioni d’insoddisfazione. Che non ha un minimo comune denominatore politico: è di destra in Ecuador e di sinistra in Cile; è autonomista e indipendentista a Honk Kong; è europeista a Praga; è sociale, ma anche politica e religiosa, in Medio Oriente.

I nemici esterni e le risposte interne
Teheran scarica la responsabilità di manifestazioni e contestazioni sui nemici esterni, punta il dito sull’Arabia saudita, Israele, gli Stati Uniti o loro agenti. Gli Stati della Regione – avverte – dovranno fare i conti con le conseguenze” delle loro azioni, se sarà provato che ci sono loro mene dietro disordini e proteste per il ‘caro petrolio’.

“Le interferenze nelle recenti manifestazioni da parte di alcuni Paesi stranieri, tra cui gli Stati Uniti, non sono frutto di amicizia e buona volontà verso la nazione iraniana, ma mirano solo a creare tensioni nel Paese”: lo dice esplicitamente il portavoce del ministero degli Esteri, Abbas Mousavi. “I Paesi che consapevolmente o meno hanno sostenuto i rivoltosi devono assumersi le responsabilità dei propri comportamenti”, aggiunge Moussavi.

Gli Stati Uniti, che su Hong Kong sono stati per mesi circospetti, prima di esporsi, dell’Iran parlano subito e prendono subito iniziative. Il Dipartimento di Stato sollecita Facebook, Instagram e Twitter a sospendere gli account dei leader del regime iraniano finché internet, sospeso, non sarà ripristinato nel Paese. “E’ un regime profondamente ipocrita: sospende internet mentre il suo governo continua ad utilizzare tutti i suoi account sulle reti sociali”, spiega l’inviato degli Usa per l’Iran, Brian Hook, in un’intervista a Bloomberg. “Chiediamo alle società delle reti sociali di sospendere gli account della guida suprema Khamenei, del presidente Rohani e del ministro degli esteri Zarif, finché non restituiscano internet al loro popolo”, dice Hook.

Ma il regime di Teheran non si limita alla repressione nelle strade e a privare del veicolo di internet la protesta; organizza pure contro-manifestazioni di sostegno. Lunedì 24, migliaia di sostenitori del governo sono scesi nelle strade della capitale per denunciare i disordini scoppiati 10 giorni or sono, dopo il rincaro della benzina. Sventolando bandiere della Repubblica islamica e cartelli su cui si leggeva “Morte all’America”, i dimostranti hanno sfilato fino alla centrale piazza Enghelab (Rivoluzione), dove vi sono stati alcuni comizi. La tv statale iraniana ha mostrato scene dei cortei, con ritratti della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, che era invece stato fra i bersagli dei manifestanti anti-governativi nei giorni scorsi.

Una nota dei manifestanti pro – regime diceva: “Esprimiamo disprezzo per i crimini dei nemici dell’Islam, guidati dagli Stati Uniti e dai loro mercenari, Mojaheddin del Popolo (Mko) e sostenitori dell’ex scià, che hanno infiammato i disordini durante le recenti proteste per l’aumento del prezzo del petrolio”. Il comunicato invocava processi immediati e punizioni severe per responsabili e organizzatori delle “iniziative sediziose”.

Il contesto e le cause delle proteste
Su AffarInternazionali, Leone Radiconcini, un giovane specialista di Medio Oriente, ricostruisce quanto sta accadendo in Iran e cerca di risalirne alle cause. Tutto comincia quando il governo annuncia, il 14 novembre, una diminuzione del sussidio all’acquisto di carburante, che comporta l’aumento del costo a gallone di circa il 50%.

La misura, incoraggiata dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) per uno sviluppo più sostenibile e condivisa da tutte le autorità locali (compresa la guida suprema Ali Khamenei), innesca proteste, scontri con le forze di polizia, una temporanea chiusura completa della connessione Internet e blackout programmati per frenare le manifestazioni popolari.

“L’Iran – spiega Radiconcini – sta vivendo un periodo particolarmente arduo a livello economico e problematico a livello di relazioni internazionali. La ‘massima pressione’ sulla Repubblica islamica esercitata dal presidente Usa Donald Trump sta avendo effetti molto negativi sul quadro economico del Paese”. Oltre un anno fa, attuando una delle sue promesse elettorali, Trump ha unilateralmente disconosciuto l’intesa nucleare siglata con l’Iran nel novembre 2015 dall’Amministrazione Obama, con Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia, Cina: l’accordo metteva sotto controllo i piani nucleari iraniani in cambio di una parziale normalizzazione dei rapporti e della fine delle sanzioni imposte dal 1979: Trump ha invece reintrodotto e inasprito le sanzioni, dirette e indirette, rendendo molto difficile per l’Iran avere rapporti commerciali fruttuosi e duraturi con altri Paesi, e ha indotto Teheran a violare progressivamente l’intesa, intensificando i processi di arricchimento dell’uranio.

Così, nonostante la ricchezza di materie prime a disposizione, l’Iran attraversa una forte recessione (-4,8% del Pil nel 2018, -9,8% previsto per il 2019 secondo l’Fmi) con un’inflazione molto alta (con i prezzi in crescita del 35% nel 2019, sempre secondo l’Fmi). A pagarne le conseguenze sono, soprattutto, i ceti meno abbienti della società, che sono scesi in piazza a protestare contro le misure di austerità, sfidando il forte apparato repressivo iraniano.

Una politica regionale costosa e impegnativa
Ma la crisi economica iraniana non dipende solo dalle azioni ostili degli Stati Uniti: pesano, molto, anche le costose scelte di politica regionale di Teheran. Le azioni di influenza e controllo esercitate su altri Stati sono particolarmente costose, ma offrono – osserva Radiconcini – “grandi vantaggi politici, grazie al predominio esercitato su ampie fasce di territorio e su realtà confinanti o vicine, essenziali per avere influenza a livello regionale”.

Dunque, l’Iran sta portando avanti proprie iniziative di repressione delle manifestazioni sia a Beirut che a Baghdad, dove ci sono governi in sintonia con Teheran (anche se con gradazioni differenti), oltre che sul fronte interno. E, contemporaneamente, compie o avalla provocazioni – tipo sabotaggi o attacchi alla navigazione nello stretto di Hormuz – per ricordare alla comunità internazionale che l’area è essenziale agli approvvigionamenti energetici mondiali.

Ugualmente l’Iran spende moltissimo per offrire sostegno al regime siriano di Bashar al-Assad ed è il principale sponsor in Libano di Hezbollah, partito politico e/o gruppo terroristico – il giudizio varia a seconda di chi lo dà -. “L’idea di esportare la rivoluzione islamica nei Paesi confinanti ha fortemente influenzato le scelte internazionali di Teheran, ma oggi questa posizione di ingerenza negli affari interni degli altri Stati della regione sta creando un effetto opposto a quello desiderato: un sentimento anti-iraniano diffuso in vari Paesi e particolarmente forte in Iraq, dove i manifestanti hanno anche preso d’assalto la sede del consolato iraniano a Kerbala”.

Il malcontento popolare e le scelte internazionali
La politica di ingerenza è fortemente malvista anche all’interno della stessa Repubblica islamica, dove la popolazione si chiede perché sia necessario fare tanti sacrifici mentre il governo spende miliardi per finanziare le milizie sciite in Iraq, Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina e tutto l’armamentario militare giudicato strumento di politica estera.

Non è la prima volta che il popolo iraniano scende in piazza contro il proprio governo. Nel 2009, quando al potere c’erano gli integralisti, il movimento verde venne represso nel sangue: chiedeva maggiori diritti e maggiore apertura democratica. Nell’inverno 2017/’18, i ceti medio-bassi protestarono contro gli aumenti del costo della vita: anche allora, la risposta delle autorità fu ferma.

Oggi, la popolazione iraniana appare poco propensa ad ascoltare la retorica del regime, che incolpa di ogni problema il nemico americano e/o israeliano, e deplora piuttosto il disinteresse delle autorità per il benessere della gente comune. “La chiusura dei canali di comunicazione – osserva Radiconcini – rende le proteste meno visibili a livello internazionale e, quindi, le manifestazioni più facili da reprimere, senza che Teheran riceva condanne da parte della comunità internazionale. Quanto le proteste potranno durare dipenderà dalla capacità di resistenza della popolazione, mentre il regime teocratico non appare aperto al dialogo con chi manifesta”.

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gphttps://www.giampierogramaglia.eu
Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche. Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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