Ci mancava solo il ‘fattore Dunkerque’, o ‘Dunkirk’, per dirla all’inglese, com’è nel titolo del film del 2017 di Christopher Nolan, che racconta l’evacuazione del porto francese nel maggio 1940, davanti all’avanzata nazista. Lo evoca il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung (Sz), sostenendo che il premier britannico Boris Johnson s’è giocato l’ultima e unica alleata europea, Angela Merkel, la cancelliera tedesca, facendo trapelare indiscrezioni su una loro telefonata. Argomento, la Brexit, ovviamente, per la quale il conto alla rovescia, alla mezzanotte di mercoledì 9 ottobre, segnava poco più di 500 ore, 22 giorni.
La Sz scrive: “Con la pubblicazione del contenuto della loro telefonata – sia che sia vero o meno – Johnson potrebbe essersi giocato ogni credito” con la Merkel, che “fino all’ultimo puntava a un accordo”. Dopo le indiscrezioni londinesi, la ricerca dell’intesa potrebbe però essere finita: “Angela non perdona un abuso della fiducia simile”. Ora, a Berlino c’è chi crede che Johnson voglia ricreare nel Regno Unito un ‘fattore Dunkerque’, dando l’impressione di condurre una battaglia decisiva non contro l’Unione europea, ma contro la Germania: “l’eroica evacuazione delle truppe britanniche dal porto di Dunkerque già accerchiato dalla Wehrmacht aveva consentito ai britannici di proseguire la guerra contro i nazisti”. Quell’episodio “resta ancora in Gran Bretagna sinonimo di capacità di resistere, volontà di tenere duro e fermezza”.
‘Deal’ o ‘no deal’, Dunkerque o meno, Johnson vuole andarsene
Se c’è qualcosa di vero nella ricostruzione e nelle ipotesi del quotidiano di Monaco di Baviera, Johnson avrebbe, però, le idee confuse su nemici e alleati di quel combattimento: con i britannici, infatti, a Dunkerque si misero in salvo anche soldati francesi. Invece, il premier succeduto a Theresa May non fa sconti né fa differenze: parlando, sempre al telefono, con il presidente francese Emmanuel Macron, ha ripetuto che sulla Brexit non chiederà alcun rinvio, nonostante la legge anti-no deal (Benn Act) lo costringa a farlo in mancanza di un accordo, e che – ‘deal’ o ‘no deal’ – il Regno Unito lascerà l’Ue il 31 ottobre.
Ai suoi concittadini, e ai suoi interlocutori, Johnson ripete di volere trovare “un accordo accettabile per entrambe le parti” e sostiene che Bruxelles deve fare dei compromessi come Londra. L’ipotesi di modifica dell’intesa a suo tempo negoziata dalla May, e sempre bocciata dai Comuni, presentata a fine settembre, è “l’ultima possibilità”, avverte il premier britannico dai modi e toni ‘trumpiani’. Ma il coltello dalla parte del manico l’ha Bruxelles, non Londra: il ‘no deal’ è uno spauracchio oltre Manica, non sul Continente, dove le onde d’urto di una ‘hard Brexit’ sarebbero più attuite.
I negoziatori dell’Unione europea e del Regno Unito continuano a incontrarsi “per dare” a Londra – così scrive la Commissione di Bruxelles, in una nota ufficiale – “ulteriori opportunità” di presentare la propria proposta “in dettaglio”. Per ora, i rappresentanti dei 27 presso l’Ue e il capo negoziatore Michel Barnier concordano che “la proposta britannica non fornisce le basi per raggiungere un’intesa”: il nodo principale resta la frontiera fra le due Irlande. Una parola forse definitiva – ma qui la parola fine sarà messa il 31 ottobre, se sarà messa – potrebbe dirla il Consiglio europeo, che si riunirà a Bruxelles giovedì 17 e venerdì 18: difficile, però, che l’unità dei 27, finora adamantina, almeno sulla Brexit, s’incrini in extremis, a vantaggio di Johnson.
Ipotesi proroga fino a giugno 2020
Secondo The Guardian, i leader europei stanno valutando una serie di opzioni, fino al giugno 2020, per estendere ancora una volta i negoziati sulla Brexit, che – lo ricordiamo – dovevano concludersi entro il 29 marzo. Vista dall’Ue, la trattativa appare su un binario morto: “Estendere la permanenza del Regno Unito nell’Unione sembra inevitabile”, scrive il quotidiano. L’alternativa sarebbe se attendere o meno le elezioni politiche anticipate britanniche.
Ma Johnson fa orecchie da mercante. In un articolo pubblicato dalle edizioni domenicali dei tabloid Sun e Daily Express, il 6 ottobre, non lascia scampo: il 31 ottobre la Gran Bretagna “farà le valigie” e lascerà l’Unione europea, con o senza accordo. “Dopo dieci anni di campagne, tre di discussioni e mesi di rinvii insensati, … ora si tratta solo di vedere se Bruxelles ci saluterà con un accordo gradito da entrambe le parti o se saremo costretti ad andarcene per conto nostro”, scrive Boris, ex ministro degli Esteri, ex sindaco di Londra, ma soprattutto, quando si mette al computer, ex giornalista.
L’intento è di scaricare sull’Ue il barile di un ‘no deal’. A un evento di Le Monde, a Parigi, il capo negoziatore europeo Michel Barnier replica che una Brexit “senza intesa non sarebbe una scelta dell’Europa, ma del Regno Unito”: “Siamo pronti a un’eventualità del genere ma non la vogliamo”; e, se si verificasse, ci sarebbe da biasimarne solo Johnson e non “qualche misteriosa entità” ostile.
Comuni chiusi, in attesa del discorso della Regina
Tutto ciò avviene ‘a Comuni spenti’, perché Johnson, sconfessato dalla Suprema Corte britannica sulla decisione di chiudere il Parlamento per un mese, l’ha comunque richiuso per una settimana, fino al 14 ottobre, quando ci sarà il discorso della Regina. E il premier l’ha fatta per ora franca, rispetto a un’ingiunzione preventiva della magistratura scozzese di chiedere un rinvio della Brexit oltre il 31 ottobre il governo non dovesse trovare un accordo di divorzio con Bruxelles. Un giudice della Court of Session di Scozia tiene temporaneamente in sospeso l’istanza presentata da attivisti ed esponenti pro Remain, che chiedevano di anticipare l’obbligo di rispettare la cosiddetta legge ‘anti – no deal’ approvata su impulso delle opposizioni dal Parlamento britannico.
Nel suo tradizionale e solenne discorso annuale, la regina presenta, a Camere riunite, il programma del governo per i mesi successivi. La sospensione (prorogation) dei Comuni per una settimana – pur avvenendo a vicenda Brexit aperta, con i negoziati supplementari fra Londra e Bruxelles in bilico e sull’orlo del fallimento – non ha stavolta suscitato polemiche particolari o ricorsi giudiziari, come quella precedente di cinque settimane dichiarata nulla e illegale dalla Corte Suprema. Una chiusura di sei giorni rientra, infatti, nelle prerogative governative ordinarie previste dalla prassi istituzionale britannica in queste circostanze.
Un conto alla rovescia verso la rottura
Secondo Alessandro Logroscino, il corrispondente dell’ANSA da Londra, che sempre ci è prezioso per decifrare gli sviluppi della situazione a Londra, “il conto alla rovescia sulla Brexit scandisce, salvo miracoli, la corsa verso la rottura, non verso l’accordo”, fra Gran Bretagna e Unione europea. Un epilogo destinato a consumarsi in tempi brevi, se sono vere le indiscrezioni fatte filtrare ad arte da Downing Street, con un furibondo Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, che bolla come “uno stupido scaricabarile” il gioco Johnson, mentre in ballo c’è “l’avvenire dei nostri popoli”: “Non vuoi un accordo, non vuoi un’estensione, non vuoi una revoca, quo vadis?”, si chiede e chiede l’ex premier polacco. La trama di Johnson, secondo la Bbc, sarebbe opera del Rasputin personale del premier tory, il gelido consigliere e tessitore di trame elettorali Dominic Cummings, che pensa soprattutto in chiave di voti.
Per Logroscino, il messaggio che arriva da Johnson ai partner “è quello di prepararsi al peggio”, accompagnato dal tentativo di additare fin d’ora come colpevoli l’Ue e magari la Merkel – e così torniamo al ‘fattore Dunkerque’ -. Bruxelles è accusata di non essersi “mossa d’un centimetro” negli ultimi negoziati e viene avvertita che un salto nel vuoto potrebbe mettere in discussione persino la cruciale cooperazione nel campo della difesa e della sicurezza fra il Regno e i 27. Quanto alla cancelliera tedesca, “invocata in questi mesi come la figura più incline al compromesso, diventa improvvisamente il signornò di turno”, pronta al veto sulla permanenza dell’Irlanda del Nord nell’Unione doganale.
In barba al ‘fattore Dunkerque’, le opposizioni britanniche sono determinate a fare valere la legge ‘anti no deal’ e ad imporre, quindi, al premier ‘ultra-brexiteer’ la richiesta di un rinvio di tre mesi dell’uscita dall’Ue, se non vi sarà intesa entro il 19 ottobre. E la magistratura potrebbe intimare a Johnson di farlo, salvo dimettersi. Il premier, come Cummings, guarda alle urne: un traguardo che punta a raggiungere – sostengono gli oppositori, dai laburisti di Jeremy Corbyn alla leader indipendentista scozzese Nicola Sturgeon – anche a costo di “sabotare i negoziati”, esporre il Paese a una ‘hard Brexit’ e “scaricare il fiasco su chiunque altro in modo pateticamente trasparente”.
I sondaggi danno ancora ragione a Johnson, che si dice “fiducioso” – di che, non è chiaro -, nonostante una sterlina che continua a calare, una produttività ai minimi da cinque anni e stime dell’Institute for Fiscal Studies di un’esplosione del debito pubblico a livelli record da mezzo secolo per fare fronte ai costi di un eventuale ‘no deal’: fino all’equivalente di 112 miliardi di euro, il 90% del Pil britannico.