Presidente che vai, corruzione che trovi: in Brasile, i tre primi presidenti eletti nel XXI Secolo sono finiti in carcere, o sono stati destituiti, per corruzione. Chi condannato in via definitiva, come Lula, Luiz Inacio da Silva, sindacalista, eletto a due riprese, che sta scontando una pena di 12 anni; chi colpito da impeachment, come Dilma Rousseff, guerrigliera ai tempi della dittatura, economista, eletta a due riprese, destituita nel 2016 – avrebbe truccato i dati del bilancio statale -; chi appena arrestato, come Michel Temer, presidente mai eletto dal popolo, uno di destra, dopo due di sinistra.
L’attuale presidente, Jair Messias Bolsonaro, d’estrema destra, omofobo e autoritario, s’è da poco insediato al potere: in carica dal 1° gennaio, non è per ora finito nel frullatore delle inchiesta. Ma sotto indagine c’è il figlio Flavio, sospettato di connivenza con uno ‘squadrone della morte’ di Rio de Janeiro, lo ‘Escritório do Crime’. Il quotidiano O Globo ha accertato che, quand’era deputato, aveva assunto la madre e la moglie del presunto capo banda, un ex agente delle forze speciali.
La madre di tutte le inchieste brasiliane è l’Operação Lava Jato, cioè l’Operazione Autolavaggio, che le forze dell’ordine considerano la più grande iniziativa anti-corruzione mai condotta in Brasile. La polizia federale la avviò il 17 marzo 2014, cinque anni or sono, per fare emergere il meccanismo di tangenti dell’azienda petrolifera statale Petrobras, partendo da dichiarazioni, non tutte attendibili, del pentito Alberto Youssef: un giro di tangenti del valore stimato di 10.000 milioni di real, circa 2,4 miliardi di euro.
Riciclaggio, tangenti, appalti truccati, dentro ‘Lava Jato’ c’è di tutto: l’esplorazione di questo sistema criminale, articolatasi man mano in molti rivoli, ha innescato oltre un migliaio di arresti e altre misure coercitive e ha coinvolto almeno altri 11 Stati, prevalentemente in America Latina. L’elenco degli inquisiti comprende tuttora una cinquantina di politici e amministratori.
La vicenda ha rapidamente acquisito visibilità e, parallelamente, il sostegno dell’opinione pubblica, in parte perché scardinava l’aura di impunità, sedimentata nel tempo, intorno all’intreccio tra mondo degli affari e società pubbliche in Brasile -, in parte perché dava concretezza alla rivendicazione d’indipendenza del potere giudiziario.
Con modalità che ricordano per certi aspetti quelle del pool di Mani Pulite, Sergio Moro, principale magistrato inquirente, ha messo alle strette Lula e la Rousseff, premiando gli imprenditori che collaborano alle indagini e utilizzandone le dichiarazioni contro politici e amministratori. Una linea di condotta che ha però suscitato malesseri e proteste da parte degli avvocati difensori, che accusano i magistrati di “selettività” e “parzialità” contro i loro assistiti.
Certo, il dubbio c’è, o c’era: un’inchiesta per scoprire furfanti?, o per fare fuori antagonisti politici? Senza cancellare del tutto l’impressione d’una giustizia magari necessaria ma comunque fortemente politicizzata, l’arresto di Temer attenua il sospetto di un’indagine a senso unico. Anche se è un dato di fatto che la condanna di Lula e il divieto all’ex presidente di ricandidarsi abbiano spianato la via lo scorso anno all’elezione di Bolsonaro: secondo tutti i sondaggi, Lula sarebbe stato rieletto. Forse perché la sua gente alla sua corruzione non ha mai davvero creduto; o forse perché in un Paese dove la corruzione è endemica la tolleranza sociale verso tale misfatto è diffusa; o forse un po’ per l’una e per l’altra cosa. Le indagini fanno pure tremare finanzieri e imprenditori: gli ultimi sviluppi innescano cali in Borsa.
Decapitata la sinistra e ora pure la destra ‘tradizionale’, Bolsonaro è sempre più l’uomo forte e solo al comando di questo grande Paese esteso quasi quanto l’Europa e con 190 milioni di abitanti, che ancora fatica a uscire dalla crisi economica degli anni controversi di Dilma Rousseff e persino dall’umiliazione psicologica dello 0-7 subito dalla Germania nel 2014 ai Mondiali in casa. Il che dà mano libera al neo-presidente nelle scelte economiche, accelerando in particolare le privatizzazioni, e gli consente una politica estera spregiudicata, spalleggiato com’è da Donald Trump: il palazzinaro e l’ex militare, in barba alla geo-politica, progettano l’ingresso del Brasile nella Nato; e fanno campagna per il loro sodale Benjamin Netanyahu in vista delle elezioni israeliane.
Quali le accuse contro Temer? Stando ai documenti forniti dalla Procura federale, l’ex presidente era a capo di una ‘organizzazione criminale’ che ha agito per diversi decenni e che ha raccolto tangenti per mezzo miliardo di euro circa. Arrestato giovedì a San Paolo, Temer è tra l’altro accusato di avere incassato ‘bustarelle’ dall’azienda Engevix, che voleva ottenere contratti relativi alla costruzione della centrale nucleare Angra III, nello Stato di Rio de Janeiro. Le tangenti erano “parte di uno schema di corruzione ben più vasto”, gestito, per conto di Temer, dall’ex colonnello della polizia Joao Baptista Lima Filho, finito anch’egli in carcere.
Fra i primi ad andare a trovare Temer, 78 anni, in carcere, l’ex ministro Carlos Marun, un dirigente dell’Mdb, il Movimento democratico brasiliano, un partito di centro-destra: l’ha trovato “indignato, sorpreso e triste”, in una stanza di 20 mq, al terzo piano d’una sede della politiza a Rio, dov’è stato portato dopo l’arresto a San Paolo – la ‘retata’ ha riguardato una decina di persone, fra cui l’ex ministro delle Miniere e dell’Energia Moreira Franco. E’ possibile che la detenzione preventiva dell’ex presidente non duri a lungo; ma i guai giudiziari dell’uomo che ha guidato il Brasile dall’agosto del 2016, dopo l’impeachment della Rousseff, di cui era vice, fino al 31 dicembre 2018, sono solo all’inizio. Ormai privo dell’immunità, è coinvolto in altre nove inchieste, cinque già approdate alla Corte Suprema. E la ‘solidarietà’ da dietro le sbarre di Lula, colpito da nuove accuse di riciclaggio, non gli sarà di grande aiuto.