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Usa: carceri, sciopero detenuti anti-violenza e schiavitù

Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 03/09/2018

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Le immagini delle carceri degli Stati Uniti sono affidate, nell’immaginario collettivo, a film spesso drammatici, come Le ali della libertà o Il Miglio verde, o che mescolano l’ironia alla tragedia, come in Nick mano fredda, o decisamente canzonatori, come Prendi i soldi e scappa di Woody Allen o Fratello, dove sei? dei fratelli Cohen, dove i prigionieri ai lavori forzati  incatenati lungo le strade del Mississippi appaiono più macchiette umane che disgraziati delinquenti.

Gli Stati uniti hanno la più numerosa popolazione carceraria al Mondo: rappresentano meno del 5% della popolazione mondiale – quasi 330 milioni su oltre sette miliardi di persone -, ma hanno il 25% dei detenuti e il più alto tasso d’incarcerazione (primati occasionalmente loro contesi a sorpresa dalle Seychelles).

Dietro le sbarre, negli Usa, ci sono oltre 2,3 milioni di persone (quasi la metà i neri, che sono appena un settimo della popolazione), ma oltre sette milioni sono quelle soggette a misure restrittive di varia sorta – dati del Dipartimento della Giustizia e dell’International Center of Prison Studies -. Nella classifica dei carcerati, li segue la Cina, con 1,6 milioni (ma la popolazione complessiva è quattro volte superiore); in quella del tasso d’incarcerazione li segue la Russia. E’ però vero che non per tutti i Paesi i dati sono affidabili.

Il sovraffollamento e le violenze
In questa situazione, sovraffollamento, disagi, repressione, violenze fra detenuti o verso i guardiani (o da parte dei guardiani) sfociano spesso in episodi criminali e letali: a metà aprile, una violenta rissa esplosa nella Lee Correctional Institution, carcere di massima sicurezza della South Carolina, causò la morte di sette detenuti e il ferimento di almeno 17. La Lee Correctional Institution è nota come una delle più intolleranti e pericolose di tutta l’Unione: ad aprile, la rissa condusse a scontri fra detenuti e poi con le guardie e le forze dell’ordine intervenute a sostegno, cui ci vollero ore e ore per riprendere il controllo della struttura.

L’episodio è all’origine dello sciopero nazionale dei detenuti negli Stati Uniti, lanciato il 21 agosto per protestare contro le condizioni di detenzione: fino al 9 settembre, la protesta s’articola in sit-in, scioperi della fame, interruzioni di lavoro e boicottaggi, in particolare con l’astensione da ogni tipo di mansione retribuita da parte dei detenuti e delle detenute aderenti.

Lo sciopero e le richieste di detenuti e detenute
Ora, sciopero, quasi per antonomasia azione collettiva, è parola che si declina male nell’Unione, dove l’individualismo è forte (e, fra i detenuti, fortissimo); e nazionale è una dimensione che mal s’adatta alla frammentatissima realtà carceraria Usa, con competenze federali, statali, locali e con una miriade di prigioni appaltate a privati – spesso, le peggiori, dal punto di vista della disciplina e del trattamento -.

Negli Stati Uniti, secondo dati citati dai promotori della protesta, tra cui la ‘Commissione Carceri’ del sindacato IWW e il movimento abolizionista Ram, il business della detenzione fa girare circa due miliardi di dollari l’anno, mentre i detenuti vengono pagati tra i 5 e i 10 centesimi di dollaro l’ora per svolgere lavori interni di pulizia, cucina, lavanderia, etc.: condizioni che gli organizzatori dello sciopero equiparano alla schiavitù, proibita dalla Costituzione statunitense (i lavori forzati sono previsti solo per chi ha commesso determinati reati).

Le richieste dei promotori dell’agitazione, su cui non si hanno dati per apprezzarne il seguito, vanno dal miglioramento delle condizioni di detenzione alla parità di salario con gli “esterni”, cioè quelli escono dal carcere per lavorare, fino al riconoscimento del diritto di voto in prigione.

Le carceri private nel mirino
Nell’estate del 2016 era stato annunciato che il Dipartimento della Giustizia avrebbe messo fine all’utilizzo delle prigioni gestite da due grandi gruppi quotati in borsa, la Corrections Corporation of America (Cca) e The Geo Group, che, nella campagna elettorale per le presidenziali di quell’anno, avevano finanziato entrambi i candidati alla Casa Bianca, Donald Trump e Hillary Clinton. Il tema delle carceri private, infatti, sparì, di comune accordo, dai dibattiti presidenziali.

Secondo i dati del Dipartimento, i due gruppi ricevevano 70 dollari al giorno per ognuno dei 195 mila detenuti nelle loro prigioni, quasi 14 milioni di dollari complessivamente al giorno, ma ne spendevano appena 12 per la loro cura e 47 in tutto per la gestione, con un margine operativo lordo del 33%, molto alto e per mantenere il quale nel tempo s’è progressivamente ridotto numero e qualifica degli operatori, pagati ai minimi salariali e spesso ‘reclutati’ fra reduci dall’Iraq e dall’Afghanistan con disturbi post-traumatici da stress aggravati dall’ambiente carcerario. Dietro Cca e The Geo Group, ci sono grossi nomi della finanza americana e internazionale, fra cui Lazard e Vanguard Group e banche come Bank of America, Bank of New York Mellon, Wells Fargo e molti altri.

Il vice-procuratore generale Sally Yates, poi cacciata in malo modo dal presidente Trump, mentre assicurava l’interim alla Giustizia, chiese ai funzionari responsabili di non rinnovare, alla scadenza, i contratti con i gestori delle carceri private o di ridurne “in modo sostanziale” la portata, adducendo un rapporto molto negativo dell’Ufficio dell’Ispettore generale del Dipartimento. Alla Cca, compete una popolazione carceraria di 66mila persone; a The Geo Group di 70mila persone; insieme, fanno il 75% della popolazione delle prigioni private, che è quasi il 10% della popolazione carceraria Usa complessiva 8una percentuale in decrescita).

In quel contesto, Shane Bauer raccontò, in un crudo reportage sulla rivista Mother Jones, i quattro mesi passati come guardia carceraria proprio presso una struttura della CcA,  informando l’opinione pubblica che le carceri private registrano un tasso di casi di vuolenza e di infrazione alle regole più elervato Di quelle gestite dallo Stato e non comportano risparmi per le casse pubbliche.

I migranti irregolari i ‘nuovi neri’
L’Amministrazione Trump non ha finora mostrato una sensibilità pari a quella Obama sul fronte delle carceri. E ha anzi incrementato un settore del ‘business dei detenuti’ particolarmente fruttuoso per i privati, incentivando la detenzione degli immigrati irregolari già ‘foraggiata’ dal Congresso, fin dal 2010.

Una norma, citata dall’ong Grassroots Leadership, dispone che i fondi a favore dell’Immigration and Customs Enforcement, agenzia del Dipartimento della Sicurezza Interna, responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, debbano essere sufficienti a mantenere almeno 34.000 “posti letto” per gli immigrati irregolari detenuti.

La norma ha creato una vera e propria quota di detenzione degli immigrati, senza precedenti e senza pari, favorendo una politica di incarcerazione sempre più aggressiva e ulteriormente incoraggiata dall’attuale Amministrazione, che, nei mesi scorsi, aveva anche cominciato a separare le famiglie dai minori, creando l’esigenza di ulteriori strutture detentive.

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Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche.Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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