Nella Guerra del Vietnam, che ha tracciato un solco nella seconda metà del XX Secolo americano, gli Stati Uniti persero 58 mila uomini. Nella Guerra di Corea, ne persero 54 mila: una cifra analoga, in un conflitto molto più breve – durò dal 1950 al ’53, mentre il Vietnam andò avanti una dozzina d’anni-. Eppure, il Vietnam è ovunque nella memoria americana; la Corea quasi ne è assente.
Colpa – forse – del cinema, perché, pellicole di propaganda a parte, la rivisitazione della guerra di Corea produsse nel 1970 Mash, dove la scena dell’ospedale da campo è quasi da operetta, tranne quando si entra in camera operatoria. E’ un po’ come se la filmografia sul Vietnam cominciasse dal 1987, da Good Morning Vietnam, mentre Il Cacciatore (1978), Coming Home (1978), Apocalypse Now (1979) raccontano, quasi in diretta, con crudezza, una guerra appena finita ed il drammatico impatto sulla gioventù che ne fu protagonista.
La Guerra di Corea fu il conflitto più aspro, l’unico confronto armato diretto, della Guerra Fredda tra Usa e Urss: i morti sono stimati a 2.800.000, oltre un milione di militari, oltre un milione e mezzo di civili – un milione al Nord, mezzo al Sud -. Stime, perché la Corea del Nord non ha mai fornito dati ufficiali. La guerra scoppiò nel 1950: la Corea del Nord, comunista, attaccò la Corea del Sud, alleata degli Stati Uniti. Complice l’aventino sovietico, la risposta dell’Onu fu rapidissima: su mandato del Consiglio di Sicurezza, gli Usa, affiancati da altri 17 Paesi, intervennero militarmente nella penisola per fermare l’avanzata comunista.
Dopo grandi difficoltà iniziali, le forze alleate, comandate dal generale Douglas MacArthur, l’uomo della sconfitta del Giappone, respinsero l’invasione e proseguirono l’avanzata invadendo a loro volta gran parte del Nord. A questo punto, intervenne nel conflitto la Cina comunista, che allora non sedeva all’Onu, mentre l’Urss inviò in gran segreto forze aeree. Colte di sorpresa, le truppe alleate ripiegarono, perdendo tutto il territorio conquistato. Il conflitto si arrestò sulla linea del 38º parallelo dove continuò con battaglie di posizione e sanguinose perdite per altri due anni fino all’Armistizio di Panmunjom, che stabilizzò la situazione e confermò la divisione della Corea.
La guerra si fermò anche perché la situazione strategica globale era, nel frattempo, mutata: l’Urss, che s’era appena dotata della bomba atomica nel 1950, aveva consolidato il proprio arsenale. E l’idea che era balenata a MacArthur, e che gli costò la destituzione da parte del presidente Truman, d’usare le armi nucleari divenne anche strategicamente impraticabile. Così, la penisola cominciò un’allucinante esperienza di oltre mezzo secolo: divisa da una frontiera ‘demilitarizzata’, che è, però, la più militarizzata a questo Mondo; appesa a un armistizio che non è mai divenuto pace; e avviata su due percorsi opposti, il Sud verso la democrazia e lo sviluppo economico, il Nord dentro una dittatura comunista senza crescita e senza benessere.
Adesso che la pace appare possibile, se non vicina, i ricorsi storici suggeriscono cautela e prudenza: l’incontro tra Kim e Moon è il primo dal 2007 tra i leader dei due Paesi, ma è il terzo in assoluto dopo quelli del 2000 e del 2007, nel segno della ‘sunshine policy’, cioè del riavvicinamento avviato nel 1998 dal presidente sud-coreano Kim Dae-Jung e proseguito dal suo successore Roh Moo-hyun, mentore politico dell’attuale presidente.
Nei due casi precedenti, il protagonista nordcoreano era Kim Jong-il, padre dell’attuale Kim, terzo d’una dinastia comunista inaugurata con la guerra da nonno Kim Il-sung.
Vicini alla pace, dunque, ci si è già arrivati. E nel 2000 Bill Clinton progettò di meritarsi il Nobel per la Pace con una missione in Corea del Nord: non se ne fece nulla, perché i tempi erano troppo stretti (e, forse, non maturi).
Adesso, il contesto tutto intorno alla Corea è molto diverso dall’inizio degli Anni Cinquanta, ma è ancora riconoscibile. La Cina e la Russia restano gli interlocutori privilegiati del Nord, che è rimasto comunista anche nell’economia, mentre Pechino ha sposato capitalismo e liberismo e Mosca un simulacro di democrazia. E gli Stati Uniti sono sempre garanti del Sud e del Giappone, che, però, tra loro due non hanno ancora superato i traumi della Seconda Guerra Mondiale – gli stessi che segnano i rapporti tra Tokyo e Pechino -.
Negli ultimi dieci anni, le battute d’arresto sulla via della pace nella penisola non sono state solo funzione dei ghiribizzi dei Kim e delle loro ambizioni nucleari e missilistiche. A Seul, ci sono stati presidenti ‘neo-nazionalisti’; e pure a Tokyo sono riaffiorate tentazioni nazionaliste e militariste – Shenzo Abe, l’attuale premier, ne è un portatore -. Con Trump, Xi, Putin e Abe, insieme a Moon ed a Kim, il mix al tavolo della pace sarà quello giusto?