Il 29 maggio 1985 si consumava a Bruxelles la strage dello stadio Heysel, un’ora prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni di calcio tra la Juventus e il Liverpool: nelle violenze scatenate dagli hooligans morirono 39 persone, di cui 32 italiane. Centinaia i feriti. A tarda sera, riportata nello stadio una calma irreale, la partita si giocò lo stesso, per volontà dell’Uefa e delle autorità belghe nonostante i dubbi dei giocatori turbati e sconvolti. Vinse la Juventus, per 1-0, con una rete su rigore di Michel Platini.
Quello che segue è il ricordo di Giampiero Gramaglia, all’epoca corrispondente da Bruxelles dell’ANSA, di cui fu poi direttore. Il racconto è tratto dal libro ‘Pezzi di storia‘, una raccolta di contributi di giornalisti di varie agenzie di stampa, italiane e straniere, curata da Cesare Protettì e Stefano Polli, anche loro giornalisti d’agenzia: quelli che di regola non “lucidano” la firma, sono in genere sconosciuti al grande pubblico, ma spesso sono i primi testimoni della cronaca che diventa Storia
È il 29 maggio. Sono emozionato, eccitato. E pure teso: è la mia prima finale di Coppa dei Campioni dal vivo; gioca la Juventus; ci sono gli hooligans del Liverpool, gli ‘animals’, che fin dal pomeriggio ci hanno dato da scrivere di incidenti, in centro, furti, botte, feriti, tanta birra. Anche se sono lì per lavoro, a fare da spalla al collega che deve ‘fare il servizio’ per lo sport, vivo l’attesa con la passione del tifoso.
È una serata insolitamente mite per Bruxelles. Sono in compagnia di mio padre, tifoso juventino che m’ha trasmesso la sua passione da bambino e che è venuto apposta a Bruxelles per vedere la partita, e di un mio amico del liceo e d’una vita, Giorgio Fraschini, un ingegnere che lavora a Bruxelles: lui e mio padre vedranno la partita insieme e torneranno a casa insieme, perché io, dopo, dovrò lavorare. Sul piazzale antistante lo stadio ci salutiamo: io vado in tribuna stampa, loro nella curva a destra della tribuna centrale. Ho preso i biglietti lì perché quella era la curva della Juve: senza saperlo, quei biglietti varranno un’assicurazione sulla vita.
Heysel: i preliminari
Non ci sono ancora i telefonini. Ogni postazione, in tribuna stampa, è corredata di un telefono fisso, di quelli d’allora, dove per fare il numero dovevi girare una rotella forata. Perfeziono gli accordi con il collega dell’ANSA Ugo Sartorio, “l’uomo della Juventus”, venuto da Torino: gli riferisco le notizie degli incidenti che abbiamo già trasmesso, degli arresti, dei feriti; alla fine del match, io mi occuperò del deflusso dei tifosi, che, comunque vada, si prevede delicato; e poi scenderò eventualmente negli spogliatoi, a dargli una mano per raccogliere le dichiarazioni.
In ufficio, all’International Press Center di Boulevard Charlemagne, nel quartiere europeo, accanto al Berlaymont, il palazzo a stella d’acciaio che ospita la Commissione europea, c’è Sandro Parone: assicura la copertura di cronaca con le fonti locali; succedesse mai qualcosa.
Heysel: la tragedia
E tutto succede in un istante: i tifosi del Liverpool sono in uno spicchio dello stadio alla sinistra della tribuna stampa, separati solo da una esile ‘cordone’ di cinque poliziotti da un settore dove dovrebbero esserci spettatori ‘neutrali’, ma dove in realtà ci sono quasi esclusivamente juventini: biglietti comprati da belgi o da chi vive in Belgio per amici italiani.
Ubriachi e violenti, gli hooligans attaccano senza preavviso e senza motivo: investono il settore accanto al loro, con spranghe, calci, pugni. Chi è lì cerca di scappare verso il basso, ma le vie di fuga verso la pista di atletica che circonda il terreno di gioco sono chiuse da ringhiere metalliche: c’è una calca terribile, molti restano schiacciati, muoiono lì, pigiati, soffocati.
Dalla tribuna stampa, dagli altri settori dello stadio, non si ha subito l’impressione della tragedia: si capisce che sta succedendo qualcosa di grave, ma si vedono centinaia, migliaia di persone sfociare in qualche modo sulla pista d’atletica, si vede svuotarsi il settore occupato dagli spettatori ‘neutrali’, che sarà da allora tristemente celebre come ‘settore Z’, si vedono mezzi di soccorso e uno squadrone di poliziotti a cavallo fare ingresso sul terreno di gioco. “Che idea – penso – mandare i poliziotti a cavallo!”. Raccolgo informazioni da agenti di servizio.
Arriva in tribuna stampa qualche tifoso spaventato ed agitato. Alle 20.17, l’ANSA lancia il primo dispaccio, stilato al telefono con Sandro in ufficio: «Gravissimi incidenti si sono verificati questa sera nello stadio di Heysel, un’ora prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool. Il primo bilancio è di alcune centinaia di feriti e contusi e di almeno un morto, secondo quanto riferiscono testimoni oculari. Alle 20 il terreno dello stadio era ancora invaso da parte del pubblico. L’inizio della partita è in forse».
Heysel: la scena
Scendo, per andare a vedere, per capire che cosa è successo. M’imbatto in gruppi di italiani che vagano scossi, spaventati: c’è stata una ressa terribile, una grande confusione, hanno visto morti e feriti, sono riusciti a uscirne, si cercano per ricostituire i loro gruppi, i loro nuclei, e contarsi. Un vigile del fuoco belga mi dice “Ci sono molte vittime, sono là”. Dietro la curva vedo i corpi allineati: sono sette, otto, nove, dieci, altri ne portano di continuo.
Devo dare la notizia, ho bisogno d’un telefono, torno su: chiamo Roma, detto ai dimafonisti quel che so – poco e frammentario –, parlo con il capo-redattore Esteri Sandro Serpieri, che mi dice che la televisione, zoomando, ha mostrato immagini ravvicinate impressionanti, più di quanto noi abbiamo visto da lontano.
La partita non incomincia, non si sa se incomincerà mai. Torno giù, raccolgo e mando altri brandelli di notizie: racconti, testimonianze, particolari. Poi, quando la partita inizia, verso le 22, d’accordo con il collega dello sport, decido di lasciare lo stadio: lì, quel che non doveva succedere è già accaduto; alla fine del match, terranno i tifosi dentro ad oltranza e li faranno uscire a scaglioni, controllando il deflusso e impedendo che quelli del Liverpool e della Juventus s’incontrino.
Dentro, chi sta nella curva opposta, dove per fortuna ci sono mio padre e Giorgio, ha capito che è successo qualcosa di grave, ma non ha la percezione del dramma. Prima di venire via, alle 21.43, detto ancora ai dimafonisti: «All’esterno, davanti alle tribune, dove è stato montato un ospedale da campo della Croce rossa, stazionano una ventina di ambulanze, ma il flusso dei feriti sembra definitivamente arrestato. Sullo spiazzo le forze dell’ordine hanno anche fatto atterrare e poi ripartire un elicottero, mentre un altro elicottero della gendarmeria sorvola lo stadio».
Heysel: dopo, l’angoscia e il dolore
Trovo un tassì e mi faccio portare in città, in ufficio. Adesso, è buio pesto: il tassista mi dice quello che, nel frattempo, ha raccontato la radio belga, la responsabilità è degli hooligans, senza dubbio. La strada verso il centro è deserta, ma incrociamo una interminabile colonna di mezzi della polizia e militari diretti verso lo stadio: le autorità di sicurezza belghe reagiscono a quello che avrebbero dovuto prevenire e preparano il deflusso dagli spettatori.
Prima di lasciare l’Heysel, avevo già chiamato a raccolta tutti i colleghi, ma non ce n’era bisogno: erano già tutti mobilitati, Corrado Sellaroli, Alfredo Bugattelli, Emanuele Riccardi. In ufficio, ci distribuiamo i compiti: io faccio il playmaker, gli altri si distribuiscono fra gli ospedali dove sappiamo che sono stati portati i feriti, a centinaia. Scambiamo notizie con i colleghi della Belga, l’agenzia di stampa locale, che sta nel nostro stesso palazzo, due piani sotto: loro ci danno quello che sanno in prima battuta da fonti locali, noi quello che ricaviamo dagli italiani con cui parliamo.
A mezzanotte, quando la partita finisce, ci sono già i primi nomi delle vittime: il bilancio definitivo sarà di 39 morti, 32 dei quali italiani, e di oltre 250 feriti, una frase ripetuta in centinaia di dispacci e che ancora adesso ho scandita in testa. All’una esatta, siamo in grado di dare un elenco, ancora parziale e sommario, delle vittime. A quel punto la notte, tragica, si gonfia di pietà più che di orrore, di dolore più che di violenza: fino all’alba, continuano ad arrivare in ufficio gruppi di italiani che cercano amici e parenti da cui sono stati bruscamente separati e di cui non hanno più traccia.
Chiedono se abbiamo notizie, consultano con ansia la lista che abbiamo: quando non trovano il nome del congiunto, o dell’amico, sono sollevati; ma, spieghiamo a tutti, bisogna essere cauti, gli elenchi sono incompleti, molti feriti sono gravi. Alcuni s’accampano lì per un po’; altri ripartono verso gli ospedali: alcuni hanno in viso l’angoscia della morte scampata e i vestiti lacerati nello sforzo di svincolarsi dalla calca.
Verso le 2, mi chiamano da casa: mio padre è rientrato, lui e Giorgio stanno bene. Tutti i colleghi restano operativi fino all’alba. La mattina, in tv, rivedo le scene della sera prima, vedo le immagini della partita, il rigore su Boniek che non c’era (il fallo era fuori area), il gol di Platini, l’esultanza che tanto farà discutere sotto la curva ‘sana’: Di tutte le vittorie juventine, l’Heysel è l’unica di cui non ho mai né goduto né menato vanto. Di tutte le storie che ho seguito, l’Heysel è quella di cui i fotogrammi mi restano più vividi nella memoria.