È l’ultimo appuntamento, trovo le luci spente, c’è solo un lume di carta nell’angolo della stanza e manda un chiarore debole, caldo, viscoso. Dobbiamo solo salutarci, niente di impegnativo, si parla, soprattutto si deve parlare. Voglio che si parli, voglio sentire quello che c’è dentro, non più leggere quello che si scrive fuori. Faccio finta di insegnare una cosa e voglio che ne imparino un’altra, ma non si può dire. Non si deve mai dire. Ci devono arrivare da soli, per necessità intravista, per spiragli aperti dalla fortuna sulla superficie della reputazione. Per fare quello che voglio io, bisogna vincere la paura di essere giudicati. Per questo, c’è musica, una cosa che sta a metà fra l’ambient e i chemparty, una cosa scritta sul pentagramma che entra nelle orecchie e poi scava, scorre nelle vene, dietro lo sterno, dentro lo stomaco. Bisognerebbe farli spogliare, perché perdano lo scudo del maglione nero, perché, se si mostra la pelle, si può mostrare tutto e poi si dice tutto – la pelle è trasparente, la penna è un baro, un falsario, uno spergiuro. Ma fa ancora molto freddo.
Borges, Calvino e la Biblioteca di Babele
Ho portato solo due cose: la Biblioteca di Babele e La memoria del mondo, perché pur sempre di letteratura ci occupiamo. La scusa è che, quest’anno, ricorrono due centenari: nel 1923, Borges pubblicò la sua prima raccolta di poesie; Calvino nacque. I due racconti sono il tentativo di trasformare la realtà tutta in parole – mira splendida e fallibile di ogni scrittore.
L’Argentino pensa una biblioteca che contiene ogni possibile libro, ogni combinazione di lettere in ogni ipotetica lingua: “la storia dell’avvenire, la biografia degli arcangeli, il resoconto veridico della tua morte” e molto – tutto – il resto.
L’Italiano immagina uno schedario che raccoglie tutto ciò che si sa di ogni persona e animale e oggetto di ogni tempo e luogo, un “catalogo di tutto, momento per momento … in vista di una prossima fine della vita sulla Terra”.
Chi si iscrive a un laboratorio di scrittura creativa, probabilmente, sa già scrivere e, forse, anche come. Solo, non ha il coraggio di iniziare, nessuno gli ha detto che lo sprezzo del pericolo serve più della conoscenza tecnica. Ecco perché un corso di scrittura deve dimostrare che tutto può diventare racconto e che si deve scrivere proprio ciò che ci vergogniamo far sapere agli altri: quando digitate una frase della quale immediatamente pensate “no, questo non posso scriverlo”, ebbene – gli dico – quella frase non va cancellata, perché è la parte più importante della vostra storia. Se non accettate questa condanna, dedicatevi a qualcos’altro, scattate fotografie ai tramonti, dipingete nature morte:
“La piaga letteraria degli italiani è la paura della sincerità: tu cerca di non peccare del male comune”,
disse Umberto Saba. Chiedo a due corsiste di leggere: una usa decibel tenui, emotivi, sofferti, l’altra ha un coltello curvo come quello che taglia le cipolle che poi fanno piangere. Quando hanno finito, si impone da sé un lungo silenzio che mi guardo bene dall’interrompere. Si ode solo il lunghissimo pezzo dei Marconi Union, Weightless (Ambient Transmission, Vol. 2) e, mentre le note lente e orbitali nuotano nella grande stanza, io guardo al di là delle vetrate. Seguo la fila sinusoidale dei lampioni che si adatta all’andamento collinoso delle vie della piccola città accucciata sotto la montagna di roccia. È sicuro che non parlo per primo.
Usare la letteratura per parlare della vita e la vita per parlare della letteratura
E infatti qualcuno dice: “Eh, questo sì che mi è piaciuto!” Parla del racconto di Calvino: l’ha colpito più che quello di Borges, perché il primo scrive di uomini, anche se con minor talento del secondo, che parla soprattutto di libri. Calvino fa della letteratura una lama che entra nei fianchi; Borges produce allucinazioni mnemoniche, ubriacature cerebrali, vertigini sensoriali. Il Sanremese usa la letteratura per parlare della vita, mentre il Poeta di Buenos Aires usa la vita per parlare di letteratura. Ma, quando si deve studiare scrittura, sono necessarie entrambe, perché chi si siede per la prima volta a un tavolo forse non conosce ancora il proprio stile, la propria nota alfabetica, né tutti gli immaginari a cui potrebbe attingere.
Dopo quell’intervento tecnico, il piano della discussione mostra una crepa, si frattura, il confine fra racconto e vissuto cede e, improvvisamente, fabula e intreccio, ambientazione e dialoghi, tempo e ritmo, incipit ed epilogo, tutti gli strumenti analizzati in sei incontri perdono d’importanza. Il protagonista del racconto di Calvino nasconde per tutta la vita un fatto che ha avvelenato tutta la sua vita e l’autore descrive il momento in cui quell’uomo affronta l’impossibilità di conservarne il segreto. E allora, in quella stanza, a tarda sera, emergono le persone, gli sperimentatori dell’esistenza. Qualcuno inizia a parlare di sé, del suo nodo, della sua catena, di alcune esperienze interiori, di cose mai dette prima, di cose che non si possono scrivere. Con voce piana, delicata, dice cose di pietra e di morte. Ecco che si entra, all’ultimo incontro, nell’anticamera di quella maledizione che si definisce “scrivere”.
Nessuno guarda l’orologio, quando la musica finisce non ce ne accorgiamo, la serata va avanti per un’altra ora e mezza. Il racconto ha aperto i racconti, l’esistenza umana ha alluvionato l’arte e noi diventiamo dieci persone attorno a un fuoco, più che dieci scrittori seduti a un tavolo. Nove sono lì perché scriveranno per raccontare la propria vita; una, che in quell’ultimo incontro non ha detto nulla di sé, ha il sospetto di dover ancora imparare a vivere. Capisce che sfogliare libri, leggere racconti e insegnare a scrivere sono modi per entrare nel mondo e che la vita serve alla letteratura almeno quanto la letteratura serve alla vita.
febbraio 2024