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Il Mulino Operaista: le diverse lezioni di Tronti e Negri per una sinistra post fordista

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La sfida dell’operaismo alla sinistra tradizionale negli anni Sessanta

Lo Stato o la società? Il partito o la moltitudine? Il lavoro o il consumo? La produzione o il calcolo?
Sono i dualismi che ci pare, ovviamente scarnificando una complessità che speriamo di recuperare nel nostro ragionamento, riassumano il dibattito che l’operaismo italiano ha ingaggiato con la sinistra tradizionale, e che si è poi scomposto anche nel cuore dello stesso operaismo nella divaricazione di indirizzi rappresentati da Mario Tronti e Toni Negri.

Mario Tronti

La scomparsa, a breve distanza l’uno dall’altro, di questi due protagonisti di quella scuola politica, tanto prestigiosi quanto discussi, seppur per motivi e con intensità diversi e a volte opposti, ci può aiutare ad usare la loro eredità per rafforzare l’attenzione e la capacità analitica della sinistra su temi e snodi della modernità che ancora ci sfuggono.

Mi aiuta ad inoltrarmi su questa strada una conversazione che registrai con Aldo Tortorella per Ytali[1] in cui uno dei più assidui e affiatati collaboratori di Enrico Berlinguer disse che l’origine della dissoluzione della tradizione comunista in Italia, a suo parere, è legata molto più ad errori e sbandamenti che risalgono agli anni Sessanta, piuttosto che alle comunque innegabili responsabilità dei dirigenti che si sono susseguiti nel tratto finale del PCI e alla testa delle diverse versioni dei partiti che ne sono scaturiti.

Anch’io penso che il vero buco nero che, dopo la grande fiammata del 1975/76, ingoiò il partito giraffa, per ricordare la fortunata metafora togliattiana, sia legato al passaggio 1962/66, per coloro che hanno coltivato il gusto minuzioso di quella storia, possiamo dire dal convegno dell’Istituto Gramsci sul neo capitalismo alla conferenza operaia di Genova. In quella manciata di anni prendono forma i prodromi anche nel nostro paese, di un processo di americanizzazione senza fordismo, per parafrasare Antonio Gramsci, ignorato prima ed esorcizzato poi nell’intero arco della cultura politica del PCI. Un buco nero che ha inibito la capacità del movimento del lavoro a decifrare la svolta immateriale del capitalismo.

Perché aveva ragione Pietro Ingrao
Antonio Negri

E in questo, credo, di conseguenza, che avesse ragione Pietro Ingrao che nel suo libro Le cose impossibili riconobbe che

“snobbando poi l’operaismo perdemmo l’occasione per intercettare e comprendere il rifiuto del lavoro“ [2].

Infatti, abbiamo recintato, insieme alle personalità di chi ha teorizzato e praticato chiaramente l’illegalità, anche le abilità ad attivare strumenti e sensibilità capaci di misurarsi con le forme più dirompenti di quel capitalismo cognitivo che smaterializzava la fabbrica e individualizzava consumi e relazioni socio politiche.

Per questo ritengo che, al netto delle valutazioni sulle gravissime e innegabili responsabilità personali che sono state addebitate ai maggiori dirigenti di quella galassia, fra cui appunto Negri, ripeto ancora una volta che non si possono né si devono tacere o esorcizzare, come invece ancora si tende a fare in alcune aree della cultura più radicale, sia necessario oggi per noi, e non per loro – intendo per l’insieme della sinistra e non per la vanità di qualche professore, ancora meglio: per chi continua a cercare nuove opportunità e circostanze per ridare forza ad un’idea alternativa di sinistra – di confrontarci ed utilizzare proprio la lezione di Tronti e Negri per colmare buchi e focalizzare nuove opzioni di una sinistra al tempo dell’intelligenza artificiale.

I due profili infatti contengono, nella loro dialettica contrapposizione, gli elementi e i linguaggi per interloquire più efficacemente con lo scenario attuale e per rendere una nuova cultura di sinistra altrettanto capace di alterità e di governabilità come è stato nel secolo precedente.

Per questo dobbiamo partire, come ci invita Aldo Tortorella, proprio da quel triangolo delle Bermude sociologico che furono i primi anni Sessanta, in un’Italia in cui il risveglio sindacale – i famosi scioperi degli elettromeccanici del 1962 – arriva a valle di un miracolo economico che già contiene in nuce i prodromi di quella epocale trasformazione dei lavoratori in consumatori, che il PCI legge ancora con gli occhiali di un lineare sviluppo delle forze produttive da promuovere seguendo quella tradizionale visione di Giorgio Amendola che vede le gloriose bandiere della democrazia gettate nel fango dalla borghesia.

Scrive lo storico Silvio Lanaro ne L’Italia Nuova. Identità e Sviluppo 1861-1988

“Da parte sua, il partito, il nuovo Principe, coltiva a lungo la paura di uno sviluppo giudicando il congelamento dei dualismi e delle permanenze pre industriali un viatico migliore della crescita delle forze produttive ai fini della transizione democratica al socialismo” [3].

Un riflesso prudenziale che già Italo Calvino sbertucciava con la famosa novella della Grande Bonaccia delle Antille e che non mancava di sollecitare irrequietezze anche nel perimetro stesso del partito togliattiano. Come ad esempio la sensibilità di Rossana Rossanda che già nel 1956, in un saggio intitolato “La ricerca e la Politica”, sul numero 25 de Il Contemporaneo di quell’anno denunciava

“l’incapacità del movimento (operaio) di comprendere gli sviluppi della nuova realtà che esso stesso aveva contribuito a creare con la sua pressione e le sue lotte”.

Nel PCI e nella CGIL, ancora diretta da Agostino Novella, si discuteva di paghe di mestiere e di salvaguardare gli spezzoni di aristocrazia operaia dalla nuova ondata degli immigrati indisciplinati che arrivavano in fabbrica dalle campagne del sud.

Pizzinato e le fabbriche che si riempivano di operai del sud
Antonio Pizzinato

Antonio Pizzinato, allora giovanissimo operaio della Borletti di Milano, in un’intervista concessami per il libro Avevamo la luna, l’Italia del miracolo sfiorato vista cinquant’anni dopo[4], così descriveva la mutazione genetica di cui è stato testimone:

“Sul finire degli anni Cinquanta – spiegava – entra nelle fabbriche lombarde una leva di lavoratori giovanissimi, non più di 20/22 anni, provenienti dalle campagne meridionali, senza rispetto per la solennità della fabbrica e con una inedita ansia di reddito”.

Ambizione e bisogni vengono usati dal neo capitalismo per ridisegnare la fabbrica:

“La tecnologia incorporata nel sistema capitalistico – scrive nel primo numero di Quaderni Rossi del 1961, dove collaborano sia Negri sia Tronti – insieme distrugge il vecchio sistema della divisione del lavoro e lo consolida sistematicamente quale mezzo di sfruttamento della forza lavoro in una forza ancora più schifosa. Dalla specialità di tutta una vita, consistente nel maneggiare uno strumento parziale, si genera la specialità di tutta una vita, consistente nel servire una macchina parziale. Così non solo si diminuiscono notevolmente le spese necessarie alla riproduzione dell’operaio, ma allo stesso tempo si completa la sua assoluta dipendenza dall’insieme della fabbrica, quindi dal capitalista”.

Due erano gli elementi che spiazzavano le certezze dell’ortodossia nei primi anni Sessanta: il primo era l’ondata consumista, che benché fosse inizialmente rimossa, e successivamente esorcizzata con le denunce delle distorsioni nella sua distribuzione territoriale e sociale, comunque smentiva ogni visione pauperista dello sviluppo capitalista. Il secondo elemento riguardava appunto i processi di innovazione sia tecnologica che organizzativa che stavano cambiando l’orizzonte della fabbrica.

Il convegno del 1962 sulle tendenze del neocapitalismo

Nel 1962 l’istituto Gramsci convoca un convegno sulle tendenze del neo capitalismo che cerca di indirizzare i fermenti nell’alveo di un unico aggiornamento di linea.

Leggendo gli atti si coglie una straordinaria vibrazione che attraversa quel dibattito, a partire dalla brillantissima relazione di un giovane Bruno Trentin che fra l’altro dice:

“Quest’ideologia (il neocapitalismo) manifesta però anche un’altra tendenza: quella che ricerca l’emancipazione delle forze produttive dall’egemonia del capitale, quella che insegue sia pure attraverso una concezione “mistificatoria” del profitto l’autonomia della tecnica e del progresso sociale dall’ipoteca capitalista. In questo senso l’ideologia neo capitalista coglie ed esprime insieme la contraddizione fondamentale dello sviluppo capitalistico: quella che esiste fra lo sviluppo delle forze produttive e la natura dei rapporti di produzione.”

Si introduce così per la prima volta una visione multiforme e cangiante del capitalismo che si scompone e comincia ad integrare ceti e figure professionali. In questo varco si inseriscono le prime riflessioni di una lettura di sinistra del partito nuovo con Lucio Magri, Lucio Libertini, Vittorio Foa che contestano la surroga da parte del movimento operaio delle inefficienze della borghesia che invece muove all’attacco.

Siamo oltre i limiti che erano consentiti in quella fase, e infatti nelle conclusioni Giorgio Amendola chiude porta e finestre in nome dei soldoni da mettere nelle tasche degli operai.

In questo scenario, fuori dalle sedi convenzionali dei due partiti di sinistra, si animano le prime comunità che potremmo dire extraparlamentari, come appunto Quaderni Rossi di Raniero Panzieri e tutta quella sequela di riviste e raggruppamenti che si susseguono negli anni successivi.

Raniero Panzieri

Qui il nodo che ci interessa non è tanto il bilancino fra destra e sinistra nel Bottegone, quanto invece proprio la lettura dei processi sociali per capire cosa intendesse Aldo Tortorella quando ci dice che è esattamente in quel passaggio a metà degli anni Sessanta quando, sempre che il vento fosse in poppa, che si comincia a perdere la bussola.

Lo scenario è quello di una ristrutturazione che venne intesa solo in termini congiunturali – una crisi per piegare le rivendicazioni sindacali – mentre stava incubando ben altro, come era evidente osservando quanto stava accadendo negli Stati Uniti d’America. Ed è proprio all’Atlantico che guardano gli operaisti che parlano e leggono fluentemente inglese più del russo. La sociologia americana, rifiutata come tecnica del nemico dagli intellettuali organici del partito, offre straordinarie indicazioni sulle tendenze che si stavano preparando nel tessuto socio economico.

Lo stesso Marx, ricorda ancora Negri in un’altra uscita di Quaderni Rossi, era giunto ad intravvedere come l’esasperazione del processo capitalista avrebbe innestato meccanismi irriconoscibili;

“La produzione capitalista genera con l’ineluttabilità di un processo naturale la propria negazione. È la negazione della negazione. Essa non ristabilisce la proprietà privata, essa stabilisce la proprietà individuale sul presupposto del compimento del capitalismo, vale a dire la cooperazione e il possesso comune della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso (K. Marx, Il Capitale).

 Quando e perché si divarica il sodalizio Tronti-Negri

Da qui si comincia a divaricare il sodalizio di Tronti e Negri.

E così arriviamo al cuore di una discussione che potrebbe proprio oggi tornare di imprevedibile attualità ed utilità.

Per rendere non inutilmente ideologico o troppo cifrato il confronto, si tratta di concentrarci su un assetto specifico che vede divergere radicalmente le concezioni dei due capi-scuola dell’operaismo: la relazione fra strategia politica e la dinamica della rappresentanza sociale. Più brutalmente il rapporto fra partito e movimento che vedono Tronti e Negri su fronti opposti.

Bruno Trentin

L’autore di Operai e capitale[5] si concentra, con una nitida coerenza per la sua formazione che combina la scolastica marxista del dopo guerra con una sensibilità appunto operaista, sul ruolo del sistema manifatturiero come radice antropologica, prima ancora che politica, e reagisce al disfacimento di quella potente infrastruttura, all’eclissi della fabbrica come matrice sociale, rifugiandosi in una declamata centralità della direzione politica intesa come palliativo alla vedovanza dell’operaio massa. Il docente padovano invece, al netto delle sue indistricabili ossessioni militaresche, coglie con un’intuizione in quel tempo assolutamente esclusiva, l’evoluzione molecolare degli interpreti del conflitto sociale, che nella transizione fra lavoro e sapere mutano caratteristiche, bisogni e ambizioni, assumendo come bussola propria quel rifiuto del lavoro che diventa terreno di scontro fra l’automatizzazione neo capitalista e l’insorgenza delle rivendicazioni del reddito senza occupazione.

La visione incentrata sulla cosiddetta autonomia del politico di Tronti, che si rivela poi convergente con quella della componente migliorista del PCI guidata allora da Giorgio Napolitano – che non a caso in un famoso convegno del 1977 proprio a Padova, porge personalmente la tessera del partito a Mario Tronti e Massimo Cacciari – attraverserà tutta la storia ultima della sinistra tradizionale in nome di un moderno Principe che ripari il vulnus del disfacimento del soggetto storico, quella classe operaia a cui fideisticamente era affidata ogni speranza.

Il secondo approccio, dove convergono le suggestioni dei francofortesi e le nuove elaborazioni dello strutturalismo francese di Gilles Deleuze e Félix Guattarì, insieme alla straordinaria spallata teorica di Michel Foucault, invece constata come la transizione del capitalismo della sorveglianza, diremmo oggi con Shoshana Zuboff, ci propone un luogo inedito di presidio e resistenza che è appunto il comunitarismo e la interattività sociale che i centri tecnologici non possono aggirare, e dove sogni e desideri sono il terreno di scontro.

Sinteticamente potremmo dire, stressando inevitabilmente concetti complessi in uno slogan che racchiude la parabola marxista dei due interpreti: si contrappongono due Marx, quello de Il Capitale e quello dei Grundrisse. O ancora, dal punto di vista geopolitico, l’Italia e l’occidente.

La “lettura marxista” di Machiavelli

Un dualismo che dalle galassie ideologiche e libresche diventa immediatamente concreto, irrompendo sulla scena elettorale, e mutando equilibri e tendenze globali.

Proprio Tronti, nella sua apparente marginalità, fu il maestro di una lettura marxista di Nicolò Machiavelli come matrice di una visione politica competitiva, non distante dalla concezione togliattiana, in cui, come scrisse egli stesso fissando un concetto chiave del suo pensiero nella sua principale opera,

“è la direzione politica che determina la forma della lotta di classe e non viceversa”.

È questa l’impostazione che in questi ultimi 20 anni ci ha portato a rispondere all’irrilevanza della sinistra solo lavorando sulla leva politica, cambiando forme e nome ai nostri partiti o sostituendo periodicamente segretari e gruppi dirigenti, senza mai intaccare visioni teoriche e radicamento sociale, senza porci il tema del soggetto da contrapporre al capitalismo molecolare.

A ben vedere questa logica, tutta interna alla terza internazionale, è stata la vera matrice della deriva illuminista ed autoritaria del cosiddetto socialismo realizzato.

Una percezione che – come alibi morale e supporto di consenso – non può non mitizzare il protagonismo del ceto manifatturiero, la “rude classe pagana degli operai” come scriveva Tronti, che il Principe maneggia e manipola per contrapporsi alla potenza avversaria della proprietà.

Senza questa base sociale geneticamente disposta ad una disciplina politica mutuata dalla fabbrica nulla più si tiene e arriva il pessimismo cosmico trontiano: nulla salus extra ecclesiam.

Invece il filone della cosiddetta fabbrica sociale, che Negri scovò e indagò con le sue opere, fra cui la trilogia Imperium – da cui dobbiamo sempre strappare le ultime cinquanta pagine di predicazione maniacale di una violenza puramente totemica e di orgasmo del passamontagna – ci fornisce strumenti più attuali per stare nella storia e negoziare i processi di automatizzazione informatica, che rendono il destino delle persone, a cominciare dai settori professionali anche più alti e privilegiati “materia di manipolazione e asservimento”.

È questo gorgo del calcolo il luogo dello scontro, scrive Negri insieme a Michel Hardt. E aggiunge, dando spazio ad un nuovo conflitto attivo:

“È proprio la macchina algoritmica che diventa motore di comunità antagonistica alla proprietà”.

Come sintetizza Paul Mason nel suo testo Post Capitalismo[6]

“questa volta siamo noi a casa nostra e i proprietari sono ospiti, per quanto ancora ingombranti e presuntuosi”.

La rete riproduce nella forma e nel linguaggio quel comunitarismo sociale che il proletariato aveva contrapposto alla proprietà privata. Certo che come tutte le tecnologie deve essere contrattata e non solo contemplata.

Partire da questo dualismo e assumere la contrapposizione con la proprietà, e non con un generico destino delle macchine, significa dare forma ad una nuova teoria socialista che possa governare, come scriveva Marx nei Grundrisse, quella dinamica conflittuale sapere/potere che occupa un posto centrale nell’ attuale ristrutturazione sociale.

E ancora Marx parla dell’oggi quando scriveva che

“in tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango e influenza a tutte le altre, come del resto anche i suoi rapporti assegnano rango ed influenza a tutti gli altri” (Karl Marx, 1858).

Questa è la risposta a chi osserva che ci sono ancora nel mondo decine di milioni di operai, così come c’erano decine di milioni di contadini quando dalla biblioteca del British Museum si individuava nei pochi opifici lo snodo fondamentale dello scontro di classe.

L’algoritmo è innanzitutto una fabbrica, quel modo di produzione – di senso, di valore, di linguaggio – che assegna rango e influenza a tutte le altre attività, a cominciare dalla lotta politica. Nessuna lacrima per l’assenza della classe rude e pagana ma grande ambizione a parlare ai nuovi produttori. Cosa pretendere di più da un testo del 1858?

Con un gramsciano pessimismo della ragione, ma recuperando un antico ottimismo della volontà, oggi ci appaiono spazi e opportunità oggettive per classificare domande di presenza e di rappresentanza politica deluse. Certo, bisogna avere il coraggio di navigare in mare aperto, riconoscendo la diversa valenza che le aree sociali stanno assumendo.

Oggi si è del tutto sbriciolato quell’edificio composto dall’alleanza fra operai della grande fabbrica e intellettuali della grande editoria.

Il mulino che macina, per tornare a Marx, è quello digitale che ci darà una società completamente diversa dal precedente mulino a vapore, esattamente come questo ha soppiantato ogni categoria e strumento politico del mulino ad acqua che dava la società feudale.

Porre oggi il tema di una vera Rifondazione, con la r minuscola per carità, della sinistra significa, in chiave globale, guardando al mondo, porsi il tema di giocare con il capitalismo la parte dello sviluppo e della gratificazione di miliardi di individui.

L’esperienza dei Quaderni rossi

Un filone questo che a me pare estremamente assonante con la linea di pensiero dei Quaderni Rossi integrandola con una rielaborazione delle esperienze digitali che, proprio alla luce della tendenza ad un ulteriore decentramento dell’uso di potenze di calcolo che l’intelligenza artificiale sta proponendo, permette, come dicono gli esponenti di quella scuola di pensiero, di “innovare l’innovazione”.

Come scrive Matteo Pasquinelli, uno degli autori del manifesto accelerazionista, nel saggio Gli Algoritmi del capitale, che ha curato per Ombre Corte[7]: laddove i tecno utopisti sostengono che l’accelerazione della tecnologia automaticamente eliminerà il conflitto sociale, la nostra posizione è che la tecnologia debba essere accelerata proprio perché necessaria per vincere i conflitti sociali stessi.

Come recitava un vecchio slogan tracciato sulle mura di un noto centro sociale milanese: le nostre sconfitte sono figlie delle discussioni mai fatte. Questa è sicuramente una di esse.

20 dicembre 2023

[1] Pci, l’innovazione mancata. Parla Tortorella”, ytali. Cf. https://ytali.com/2019/03/24/pci-linnovazione-mancata-parla-tortorella/?pdf=69797.

[2]Pietro Ingrao, Le cose impossibili. Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, Roma, Editori Riuniti, 1990, 216 p.

[3] Silvio Lanaro, L’Italia Nuova. Identità e Sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, 258 p.

[4]Michele Mezza, Avevamo la luna. L’Italia del miracolo sfiorato vista cinquant’anni dopo, Roma, Donzelli, 2013, X-350 p.

[5] Mario Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, 263 p.

[6]Paul Mason, PostCapitalism. A Guide to our Future, London, Penguin Books, 2016, 368 p. Postcapitalismo : una guida al nostro futuro, Milano, Il Saggiatore, 2026, 382 p.

[7] Matteo Pasquinelli, Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Verona, Ombre Corte, 2014, 187 p.

Michela Mezza
Michela Mezza
Insegna Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli.

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