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L’ingovernabilità delle imprese digitali

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Le imprese digitali sembrano più dei partiti politici, dove i voti si pesano in ragione della rappresentanza che esprimono, rispetto alle aziende tradizionali, dove invece si contano in misura del peso dei proprietari

Scambiare intelligenza con dati. La mission delle imprese digitali

Sembra davvero passato un secolo dalla fine degli anni Novanta, quando alla Apple si consumò lo psicodramma del licenziamento del padre dell’azienda, Steve Jobs, che poco dopo venne richiamato a furor di popolo. Già allora si comprese come un’azienda digitale, che scambia sul mercato intelligenza con dati, sulla base della reputazione di cui gode nei confronti dei suoi utenti, non è riducibile ad un patrimonio di pochi proprietari che possono decidere quello che vogliono.

Il digitale rimane un sistema economico di natura ibrida, dove la proprietà deve sempre essere temperata dai saperi e le esperienze. Oggi con il balletto che sta andando in scena nella Silicon Valley attorno ad OpenAI e al destino del suo fondatore, Sam Altman, queste caratteristiche sociali di un’impresa immateriale stanno diventando sempre più marcate. L’annuncio che l’ex Ceo di OpenAI sarà il futuro capo della divisione sull’intelligenza artificiale generativa di Microsoft, che è il principale finanziatore di OpenAI rende tutto ancora più problematico e complesso. Altman è troppo ingombrante per essere licenziato su due piedi, ed è ancora indispensabile per separarlo dalla sua creatura, per cui si trova una soluzione machiavellica, allontanandola da OpenAI ma dandogli comunque una cabina di regia.

Il balletto di Sam Altman fra OpenAI e Microsoft

Ma se vogliamo tornare al tema iniziale, la dinamica di una società digitale rispetto alle normali aziende di produzione, dobbiamo capire quali siano i fattori che sono entrati in gioco, e che mettono in secondo piano persino la proprietà. Come per Apple, così oggi per l’azienda madre di ChatGPT, il valore simbolico, potremmo dire più sinteticamente, il carisma del capo azienda e della sua squadra non può essere regolato in virtù del peso dei pacchetti azionari. Un servizio digitale, come vediamo per Google, o per Amazon, o ancora per le imprese di Elon Musk, ha bisogno di appoggiarsi all’aura del suo creatore per stringere un legame con i clienti e i fornitori: le aziende digitali sembrano più dei partiti politici, dove i voti si pesano in ragione della rappresentanza che esprimono, rispetto alle aziende tradizionali, dove invece si contano in misura del peso dei proprietari. Sam Altman, a torto o a ragione lo vedremo, è diventato il leader di OpenAI, il garante del core business, la cui immagine si è ormai sovrapposta e identificata con quella di ChatGPT. Così come Jobs era mister iPhone, così il fondatore della società che ha sviluppato la più popolare forma di intelligenza artificiale è oggi mister ChatGPT.

Tanto più quando la sua estromissione è arrivata qualche giorno dopo la spettacolare Convention di OpenAI in cui Altman è riuscito per l’ennesima volta in meno di un anno a stupire il mondo annunciando una nuova capriola della sua creatura digitale destinata rapidamente a diventare, esattamente come il walkman o l’iPhone, una vera protesi individuale di ognuno di noi che potrà personalizzarla e adattarla alle proprie specifiche attività. Una svolta che rende ChatGPT un prodotto di largo consumo e che deve essere sembrata alla maggioranza del consiglio di amministrazione dell’azienda una decisione arrogante che tradiva il mandato di cautela e sospensione che era stata dato dagli amministratori al Ceo.

In questo gioco delle parti è davvero difficile capire ora chi sia il buono e chi il cattivo. L’opinione pubblica, il popolo digitale, inizialmente ha espresso il suo stupito sostegno ad Altman, considerato il cavaliere bianco, il giovane, ha solo 38 anni, ha infatti incarnato proprio il mito del genio rinascimentale con le sue performance. Ora alla luce del merito delle decisioni del vertice della società i giudizi diventano più sfumati. Si capisce che uno dei capi d’accusa che gli è stato rivolto da Ilya Sutskever, il talento informatico che supervisiona la produzione di OpenAI ed è membro del consiglio di amministrazione, è quello di aver promosso una deriva speculativa e irresponsabile nella gestione commerciale, ignorando le raccomandazioni di cautela e prudenza nell’ingegnerizzazione dei prodotti.

“Penso che una buona analogia per capire che rapporto ci sarà tra l’intelligenza artificiale generativa e l’uomo potrebbe essere il modo in cui gli esseri umani trattano gli animali – ha detto Sutskever – Non è che odiamo gli animali. Penso che gli esseri umani amino gli animali e provino molto affetto per loro. Ma quando arriva il momento di costruire un’autostrada tra due città, non chiediamo il permesso agli animali. Lo facciamo semplicemente perché per noi è importante”.

Intrecciare efficenza e consenso nell’economia del calcolo, un equilibrio instabile

Siamo dunque ad uno scontro di visioni, di etica, potremmo dire, in cui ognuna delle due parti si identifica con una filosofia, un pensiero che connette comportamenti sociali, gerarchie organizzative e tipologie dei prodotti. Se ne è accorto perfino Elon Musk quando ha verificato che le sue spregiudicate acrobazie organizzative con Twitter e Tesla hanno comportato un costosissimo collasso sul mercato on cui ha perso milioni di utenti.

La natura di un’impresa digitale è oggi forse la vera novità di processo del nuovo corso dell’economia del calcolo. Un’impresa che deve intrecciare efficienza e consenso, rendendo sempre instabile e momentaneo il controllo dei proprietari.

20 novembre 2023

Michela Mezza
Michela Mezza
Insegna Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli.

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