E’ un voto importantissimo per la Gran Bretagna, il terzo in quattro anni, il secondo anticipato consecutivo. Ed è un voto importante per l’Unione europea, che aspetta di sapere se e quando potrà sdoganarsi dalle incognite sulla Brexit. Le istituzioni dell’Ue, specialmente la Commissione europea di Ursula von der Leyen, ragionano, in queste loro prime battute, sul medio e lungo termine, clima, bilancio pluriennale, sovranità digitale, l’Europa nel Mondo; ma l’esito delle elezioni britanniche potrebbero richiamarle alla realtà del presente, la Brexit, appunto, e l’immigrazione.
Sulla scorta dei sondaggi, tre gli scenari più analizzati nei pronostici della vigilia: il più probabile, maggioranza assoluta di seggi al partito conservatore di Boris Johnson, premier ‘trumpiano’, ostinato ‘brexiteer’; il più improbabile – sarebbe davvero una sorpresa -, maggioranza per l’insieme dei partiti inclini a un secondo referendum sulla Brexit, con il Labour di Jeremy Corbyn, i lib-dem di Jo Swinson, i ‘nazionalisti’ scozzesi e nord-irlandesi; il più complicato, lo stallo, un Parlamento senza maggioranza e un Paese incapace di scegliere e di imboccare con decisione una direzione, fuori o dentro l’Unione.
Ma la Brexit non è l’unica posta in palio di questo voto: gli elettori britannici devono anche indicare se il loro sistema politico tradizionalmente e secolarmente basato sul bipartitismo è ancora valido o se è superato; e se la proverbiale governabilità del Regno Unito è una caratteristica a prova di leader senza carisma, come Theresa May, o senza misura, come Johnson. Finora, lo stress test della Brexit è riuscito bene solo all’Ue, che ha retto senza mai incrinare la propria unità i colpi di coda di Londra incerta sul da farsi e sul come farlo.
La campagna elettorale è stata breve, come sempre in Gran Bretagna. Dei leader, Johnson è stato l’unico coerente con se stesso, vuole la Brexit nel tempo più breve possibile. Nigel Farage, il capo del Brexit Party, gli ha dato una grossa mano, aprendo un’autostrada ai conservatori in tutti i seggi dove possono spuntarla. Corbyn s’è complicato la vita prestando il fianco ad accuse d’antisemitismo e dando l’impressione di imboccare contro voglia la strada del nuovo referendum. La Swinson è forse quella che ha commesso più errori. E, comunque, a conti fatti, il fronte ‘pro remain’ si presenta alle urne diviso e quello ‘pro leave’ sostanzialmente compatto; e BoJo continua a raccontare frottole agli elettori, come quando promette che non ci sarà frontiera doganale tra Irlanda del Nord e il resto delo Regno Unito: senza frontiera tra Eire e Ulster, una frontiera, per quanto immateriale, bisognerà pur collocarla da qualche parte nel Canale d’Irlanda; altrimenti, la Gran Bretagna resterà, almeno per quanto riguarda il transito delle merci, nell’Unione europea.
Una vittoria, netta, dei conservatori traccerebbe la strada della Brexit in modo chiaro, ma potrebbe innescare processi ‘letali’ per il Regno Unito, rilanciando processi indipendentisti in Scozia e forse persino nell’Irlanda del Nord e nel Galles. Una vittoria di chi propende per un nuovo referendum aprirebbe un’ennesima fase d’incertezza nel tormentato ‘slalom parallelo’ tra Gran Bretagna e Unione europea; e lo stesso farebbe un risultato senza vincitori né vinti.
Le proiezioni più accreditate fino alla vigilia del voto, quando, come sempre accade, i pronostici paiono sfarinarsi, attribuivano un record di consensi nazionali del 43% ai Tory, ma con un bottino di deputati in calo a quota 339 su 650, contro i 359 di due settimane fa. E col Labour in recupero dal 32 al 34% e da 211 a 231 seggi. Il risultato sarebbe comunque largamente sufficiente a Johnson per restare al governo e attuare finalmente la promessa della Brexit, 1300 giorni dopo il referendum del 23 giugnio 2016, alla nuova scadenza del 31 gennaio.
Ma, rispetto a questa previsione, sarebbe sufficiente la sconfitta Tory in 18 collegi vinti nel 2017 con margini risicati per rimettere tutto in discussione. Corbyn s’è impegnato a tenere entro 6 mesi dal voto un referendum bis dopo avere negoziato con Bruxelles un’intesa di divorzio molto più soft, da sottoporre poi al popolo in alternativa all’opzione Remain. Ma il leader laburista dovrebbe tenere insieme su questa linea i lib-dem (dati ora a 15 seggi), i secessionisti scozzesi di Nicola Sturgeon (41), gli indipendentisti gallesi (4) e i Verdi (1). La soglia magica minima da raggiungere è 322, considerando che dal quorum di 650 dei Comuni vanno sempre esclusi lo speaker e i deputati repubblicani nord-irlandesi dello Sinn Fein (7 secondo i pronostici) che si fanno eleggere, ma boicottano per principio Westminster.