Un enorme carnaio, più di 100 morti nelle proteste degli ultimi giorni, e un intrigo internazionale: oltre 16 anni dopo l’invasione americana e il rovesciamento del regime di Saddam Hussein e oltre cinque anni dopo il completo ritiro delle forze straniere dal Paese, l’Iraq resta una piaga che sanguina nel Medio Oriente.
Il Ministero della Sanità aggiorna il bilancio delle proteste per il carovita: manifestazioni in cui s’intrecciano temi sociali, politici, confessionali, sullo sfondo dell’irrisolta tensione tra gli sciiti (circa i tre quinti della popolazione) e i sunniti (dominanti, fin quando c’era il rais).
Dall’inizio del mese, le dimostrazioni a Baghdad e nel Sud si sono susseguite: morti a parte, ci sono stati oltre 2.500 feriti per il governo, oltre 4.000 per la Suprema commissione per i diritti umani. Nella stragrande maggioranza, le vittime sono manifestanti e attivisti, ma si contano pure tre poliziotti uccisi e un bambino.
Mentre il leader sciita Moqtada Sadr chiede le dimissioni del governo ed elezioni anticipate, l’Iran, che con l’Iraq combatté una guerra senza esito con milioni di caduti e che gli è invece stato alleato nel conflitto contro il sedicente Stato islamico, l’Isis, accusa gli Stati Uniti e Israele di fomentare scontri e violenze “allo scopo di minare l’imminente pellegrinaggio sciita”: la tesi del predicatore del venerdì a Teheran, l’ayatollah Mohammad Emami Kashani, appare debole, ma può fare ribollire il sangue agli integralisti iraniani.
Le celebrazioni dell’Arba’een, previste quest’anno il 19 ottobre, sono una ricorrenza sciita: segnano la fine del periodo di lutto di 40 giorni per il martirio dell’imam Hussein, ucciso nel 680 a Kerbala (nell’attuale Iraq). L’ayatollah Kashani accusa gli Usa “e il sionismo di creare problemi perché faticano ad accettare la processione di milioni di pellegrini a Karbala e lo sventolio della bandiera dell’Imam Hussein, che è il vessillo della lotta contro l’oppressione”. Martedì, l’Iran aveva pure attribuito a Israele raid aerei sul territorio iracheno.
Sulle cause della protesta, più facile credere a Moqtada Sadr, leader della maggiore coalizione parlamentare irachena. I suoi deputati hanno sospeso le attività, proclamando una sorta d’aventino, almeno finché il governo non prenda provvedimenti che tengano conto delle richieste delle piazze: lo spargimento del sangue degli iracheni “non può essere ignorato”. Governo e Parlamento si sono impegnati a venire incontro alle sollecitazioni dei dimostranti: lotta alla corruzione, servizi di base (carenti anche dove c’è abbondanza di petrolio), posti di lavoro.
La massima autorità religiosa irachena sciita, Ali Sistani, appoggia le richieste dei manifestanti. Monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad, giudica “legittime” le proteste, ma chiede che si torni al dialogo. Il premier Adel Abdel Mahdi, che è di Nassiriya, dove sono state incendiate due sedi di partiti locali, riconosce carenze nei servizi e l’esplosione del costo della vita, ma dice: “Non abbiamo la bacchetta magica”.
Le misure in discussione in Parlamento sono palliativi populisti: 25 mila posti di lavoro ai laureati – c’è un problema di ‘disoccupazione intellettuale’ – e un taglio degli stipendi degli alti funzionari del 5%, devolvendo il ricavato a disoccupati e indigenti. Si pensa pure a fondi di solidarietà ed aumenti delle pensioni.
Passato il venerdì della preghiera, e del sangue, ieri il governo ha revocato il coprifuoco a Baghdad: secondo i media iracheni, la decisione di rimuovere il divieto di circolazione è stata presa dopo avere constatato il ritorno della situazione alla quasi normalità nella capitale irachena. Il coprifuoco restava in vigore nel Sud, ad Amara, Kut, Nassiriya, gli epicentri della proteste e della repressione.
Il massiccio dispiegamento di forze di sicurezza e la chiusura di strade e ponti ha ieri impedito l’assembramento di persone nei luoghi scelti per le manifestazioni dei giorni scorsi. Eppure, si sono contati altri morti: almeno quattro nel centro di Baghdad, uno nel sobborgo di Zafaraniya. Queste sono, però, informazioni non ufficiali.
Il Qatar, il Bahrain, il Kuwait e altri Paesi hanno invitato i propri cittadini a non recarsi in Iraq, mentre gli Stati Uniti e tutta la comunità internazionale centellinano reazioni ed escludono interventi.