A un anno meno un giorno dal suo insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio 2017, il presidente Donald Trump ha realizzato una sola delle sue promesse elettorali, la riforma fiscale, ma s’è già procurato un incubo degno di quelli dei suoi predecessori: la guerra dove t’impantani. Per Kennedy e Johnson, fu il Vietnam; per Bush e Obama, furono l’Afghanistan e l’Iraq; per Trump, sarà la Siria.
Vladimir Putin ci ha vinto e ne è pure venuto via, portando a casa le truppe e lasciando a presidiare il Paese un pretoriano ingombrante, il presidente Assad. Invece, i militari Usa – dice a The Guardian il segretario di Stato Rex Tillerson – sono rassegnati a restarvi a tempo indeterminato, a combattere una guerra già persa contro Assad, al fianco di un’opposizione frammentata, e pure per contrastare presenze terroristiche residuali di al Qaida e dell’Isis e per fare argine all’influenza iraniana.
Se vi pare di percepire una contraddizione con i propositi di Trump di farsi coinvolgere il meno possibile nelle guerre altrui, la vostra è una sensazione condivisa. Tillerson, le cui affermazioni sono a rischio di smentita costante, indica obiettivi ambiziosi per l’Amministrazione Trump, che, però, mentre s’impantana in Siria, vive frizioni con Israele, dopo essersi messa contro oltre mezzo mondo con la decisione di trasferire la sede dell’ambasciata degli Usa a Gerusalemme, riconoscendola così come capitale dello Stato ebraico.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fretta che gli annunci si traducano in realtà e dice che sarà tutto fatto entro fine anno. Ma Trump frena: un’ambasciata, ci vogliono anni per tirarla su. E Netanyahu, a quel punto, non si spinge oltre: “Nessuna divergenza” tra Israele e Usa. Chiarezza potrebbe farla la visita, più volte rinviata e ora imminente, del vice di Trump Mike Pence, che sarà in Israele da domenica a martedì e andrà al Muro del Pianto.
Un sondaggio indica che la fiducia globale nella leadership Usa è ai minimi storici: al 30%, meno della Cina, contro il 48% dell’epoca Obama. E l’American Foreign Service Association fa sapere che il 60% dei diplomatici avrebbe lasciato il Dipartimento di Stato nell’ultimo anno, mentre calano le vocazioni alla diplomazia.
Nonostante tutto, il presidente si dedica alla sua attività preferita: alzare polveroni. Contro i media, assegna i premi delle ‘fake news’: vincitori eccellenti, New York Times, Washington Post, Abc, Cnn, Time, Newsweek, il gotha del giornalismo mondiale. Contro i migranti, insiste che il muro lungo il confine con il Messico si farà e sarà pagato dai messicani – “20 miliardi di dollari sono noccioline” -, nonostante il capo del suo staff John Kelly parli di “affermazioni disinformate”. E sempre sul filo del rasoio dell’insulto ai messicani, che in campagna elettorale aveva globalmente bollato come delinquenti e stupratori, definisce il Messico “il Paese più pericoloso al Mondo”.
Trump è stretto tra gli sviluppi del Russiagate, in attesa che Steve Bannon, l’amico divenuto nemico, testimoni, e i ritorni di fiamma delle donne che l’accusano – in prima linea, le pornostar -. E il libro ‘Fire and Fury’ sta già evolvendo da bestseller a serie televisiva. Ma questo presidente ‘sfiduciato’ dal Mondo e dai suoi si ritrova sulla scrivania la bozza della revisione della strategia nucleare Usa, che prevede il ricorso all’atomica anche contro minacce non nucleari e persino i cyber-attacchi. E, nonostante la tregua olimpica, tiene sotto tiro il dittatore nord-coreano Kim: “Mi siederei al tavolo con lui, ma non so se serve”, con corredo d’accuse a Mosca e a Pechino che non sono “cooperative”.