Dallo Yemen del tutti contro tutti, piovono razzi sull’Arabia saudita, che ha reso il Paese un teatro di guerra tra una coalizione sunnita e i ribelli sciiti Huthi sostenuti dall’Iran. Ieri, proprio gli Huthi hanno lanciato un missile balistico contro il palazzo reale di Yamama, dove il re Salman presiede riunioni di governo e riceve ospiti stranieri.
L’ordigno è stato intercettato a sud della capitale saudita: frammenti sono caduti “in vari quartieri” della città, senza però fare “feriti o danni”, secondo la tv Al Arabiya. Il botto dell’intercettazione è stato udito a Riad: testimoni hanno visto levarsi una colonna di fumo.
Non è la prima volta e, verosimilmente, non sarà l’ultima. Il 5 novembre, gli Huthi avevano sparato un missile balistico contro l’aeroporto internazionale di Riad: fu intercettato e distrutto dal sistema anti-missile saudita (Patriot ‘made in Usa’). In un’intervista ad Al Jazeera, un portavoce degli Huthi aveva annunciato che gli attacchi missilistici contro l’Arabia saudita sarebbero continuati.
Riad accusa Teheran di avere fornito agli Huthi gli ordigni balistici, o almeno le loro componenti, ma l’Iran respinge le accuse. Nei giorni scorsi, l’ambasciatore Usa all’Onu, Nikki Haley, aveva detto di avere prove concrete che i missili sparati dagli Huthi fossero di produzione iraniana. Proprio ieri, quasi in coincidenza con il nuovo attacco, l’Iran ha ufficialmente contestato le “dichiarazioni provocatorie, irresponsabili e senza fondamento” della Haley.
L’Arabia saudita ha formato e guida una coalizione sunnita che dal marzo 2015 combatte gli Huthi in Yemen, teatro di una tragedia umanitaria – mille i bambini uccisi ogni anno, stima l’Unicef -. Nello Yemen, c’è in gioco anche il prestigio dell’erede al trono saudita Mohammed bin Salman, appena incrinato dalla fallita operazione libanese.
L’uccisione, lunedì 4 dicembre, dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1978 al 2011 e artefice della riunificazione del Paese) ha probabilmente segnato una svolta nel conflitto. Saleh, uomo ‘camaleontico’ – così lo definisce Eleonora Ardemagni, profonda conoscitrice dello Yemen -, è stato ucciso dagli Huthi, suoi ex alleati, con cui aveva appena rotto il 2 dicembre.
“Poteva essere – dice l’Ardemagni – l’occasione insperata per un compromesso politico che fermasse il ‘grande conflitto’ tra la coalizione guidata dai sauditi e il fronte degli insorti”. L’uccisione dell’ex presidente ha invece inasprito le tensioni e gli scontri, con centinaia i morti nell’ultima settimana.
Il debole governo del presidente riconosciuto Abd Rabu Mansur Hadi ha annunciato un’operazione per riprendere la capitale. L’equazione politico-tribale-militare che resse lo Yemen fino alla rivolta del 2011 (quando Saleh si dimise) pare ricostituirsi: “La restaurazione yemenita è iniziata”, favorita dall’eliminazione dell’ex presidente.
La fazione anti-Huthi non è mai stata coesa, dopo il golpe del gennaio 2015. Ad Aden, dove si sono trasferite le istituzioni riconosciute, le contraddizioni interne stanno però esplodendo. Hadi, il cui mandato ad interim è scaduto nel 2014, deve fronteggiare l’ascesa degli indipendentisti del Sud, tentati dal referendum e appoggiati dagli Emirati Arabi Uniti.