Vado sul motore di ricerca e scrivo genericamente “un grande italiano”. Nell’ordine appaiono riferimenti a questi nomi:
- Tullio de Mauro (riferito alla lingua e un vocabolario)
- Luigi Einaudi (glielo dice un ‘associazione partigiana)
- Giorgio Napolitano (lo scrive l’Istituto Affari internazionali)
- Enrico Mattei (la fonte è questo giornale da cui parlo, quarto posto in Google)
- Giacomo Matteotti (sottotitolo di un libro edito da Giunti)
- Don Giovanni Bosco (un libro del 1945 edito dall’editrice Sorgente)
- Enzo Ferrari (è il figlio che parla)
- Fulco Pratesi (La Repubblica, in occasione dei 90 anni, è l’ottavo in questa classifica, mi associo anche perché è un mio grande amico)
- Silvio Berlusconi (citazione da Facebook, di un parlamentare di Noi Moderati a cui segue quella di Gennaro Sangiuliano).
Ecco, mi fermo qua. Le classifiche dei motori di ricerca hanno molti difetti scientifici e storiografici ovviamente. Ma contengono qualche spunto di verità. Uno su nove è ancora vivo e mi piace l’idea di inquadrare in questo top ten, un altro grande italiano vivo. Ma intanto passo ai perché.
Il primo è determinato dall’occasione. E l’occasione è costituita da una pagina intera del Corriere della Sera di venerdì 11 ottobre 2024 che contiene l’intervista di Federico Fubini allo stesso Giuseppe De Rita. Imprevedibile il titolo “Ecco perché sono un oligarca” (poi lo spiegheremo). Si tratta dell’annuncio di un libro in corso di pubblicazione: Oligarca per caso, scritto con Lorenzo Salvia in uscita nella collana diretta da Massimo Franco per “Solferino”.
Ora, De Rita è nato a Roma nel 1932, ha 92 anni, un filo frenato nelle gambe ma coerente con la famosa battuta di Francesco Saverio Nitti che tornò in Parlamento dopo la guerra, l’esilio e persino l’imprigionamento dei tedeschi, camminando con un bastione e dicendo che
“c’è a chi prende alle gambe e c’è a chi prende alla testa”.
Questa intervista sul Corriere della Sera ne è del resto una prova evidente. Secondo me intelligente, acuta, interpretativa. Ne parlo con il mio amico Nadio Delai che per anni al Censis è stato il direttore a fianco di De Rita e trascrivo qui il suo commento a questo mio primo giudizio.
“Concordo con il giudizio – dice – è una testimonianza personale e professionale del valore insostituibile, in basso come in alto, di una ‘orizzontalità necessaria’. Tanto nell’interpretazione, quanto nell’azione. De Rita, in questa intervista, ne dà testimonianza attraverso la sua formazione iniziale, per passare a spiegare l’importanza della dimensione “oligarchica” e anche l’illusione della verticalizzazione dei poteri. E poi anche per un’altra cosa: una mancanza di intenzionalità diffusa, che si coglie oggi nei singoli, nelle famiglie e nel Paese nel suo insieme”.
Dopo il liceo classico dai gesuiti, Giuseppe De Rita si laurea in Giurisprudenza (nel 1954), dirige la sezione di ricerca sociologica allo Svimez dal 1958 al 1963, fonda – con altri – nel 1964 il Censis e dal 1967 annualmente produce – insieme a una montagna di ricerche per le istituzioni, per le imprese, per il sociale organizzato – il Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese che è il Manuale delle marmotte sveglie (cioè giornalismo, politica, imprenditorialità e sistema professionale che ritiene importante capire la trasformazione sociale e ugualmente ritiene essenziale dare nomi e senso ai cambiamenti in corso) per disporre di un linguaggio e di strumenti concettuali per convivere in modo più dialettico e quindi più utile con le trasformazioni stesse.
Infinite scoperte, Infinite parole, infinite ipotesi di lavoro.
Guardando alla bibliografia, cioè ai libri da lui scritti (non tantissimi e spesso con altri, al di là dei rapporti del Censis, scritti come un’orchestra, anzi come un sistema di orchestra e coro), i centri di analisi maggiori appaiono questi:
- che fine ha fatto la borghesia (tre libri importanti dal 1997 al 2011)
- cosa è il regno inerme, cioè la fatica trasformativa della società di fronte alla crisi politico-istituzionale (libro del 2002)
- la lunga parabola del Mezzogiorno (libro del 2020)
A cui aggiungo, per i risvolti etico-civili, la polemica sul “presentismo” che sta nel suo Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità, che è del 2018.
Forse non è esaustiva questa biografia professionale (a cui si sommano otto figli e una moglie importante, scomparsa da poco, che costituiscono un modello di famiglia che appare oggi come un “manifesto di pensiero”) ma nel breve tempo che abbiamo fissa alcuni argomenti caratterizzanti.
Anzi, a proposito della famiglia, lo dice espressamente anche nel colloquio con Fubini.
De Rita: “Questa denatalità riflette una mancanza di desiderio, siamo una società senza intenzione. L’intenzione di portare a letto una donna o di fare soldi è facile, ma è l’intenzionalità profonda che manca: vale per i singoli e per la società nel suo insieme. La tragedia di questo Paese è di non avere obiettivi collettivi, non ha un’intenzione di diventare qualcosa».
Nel 2008, raccogliendo scritti civili di una quarantina di anni, diciamo paralleli sia alla scrittura professionale sia a quella accademica (in Quarantotto, Bompiani, libro che ha avuto l’onore di una recensione dello stesso De Rita sul Corriere della Sera), ho inserito un ritratto di due figure, espressione del mondo cattolico, entrambi importanti per la mia formazione adulta e in accompagnamento soprattutto del mio percorso nel quadro di impegni istituzionali assunti: Piero Bassetti a Milano (oggi con lucidità e spirito di iniziativa a 96 anni) e Giuseppe De Rita a Roma.
Riassumo in poche parole quella descrizione, partendo da un titolo un po’ impreciso ma non del tutto, dato al tempo: “I miei cattolici liberali”.
Soprattutto riconoscendo a entrambi uno sguardo glocal (attenti al mondo e alla terra sotto i piedi), forse Bassetti più global e De Rita più local. Entrambi interessati all’evoluzione sociale della borghesia, Bassetti con più attenzione a quella produttiva, De Rita a quella intellettuale. Entrambi con un rapporto di grande autonomia dalla politica (Bassetti dopo la militanza fino al ritiro volontario dal Parlamento), cioè da qualcosa che li ha appassionati e interessati tutta la vita; e anche autonomia dal sistema universitario tanto che – avevo scritto –
“uno è un politologo eterodosso e l’altro è un sociologo eterodosso”.
Le loro analisi e le loro interpretazioni non sono mai né quelle di moda, né quelle influenzate dal sistema occasionale degli interessi. E la critica all’accademia resta per entrambi riferita al tema di una carta improduttività culturale al di là della montagna di libri che l’Università produce.
Il territorio conta per entrambi. Bassetti fu tra gli inventori del regionalismo italiano (criticandone poi gli sviluppi), per De Rita esso è il contenitore di ciò che anche nel suo ultimo scritto (contenuto in “Sei scritti fuori ordinanza”) ritiene che sia la autopropulsione sociale.
Sociologo del territorio di lungo corso, ecco un altro commento di Nadio Delai su questo passaggio:
“Siamo usciti negli anni Settanta con la scoperta del sommerso. Anni in cui per ricordare uno spunto la guerra del Kippur, produsse contrazioni del sistema produttivo anche da noi. Molti licenziati, da cui sono nate settecentomila piccole imprese e da cui comincia il mondo dei distretti. Quello è stato essenzialmente il racconto del territorio di quegli anni. C’era bisogno del riconoscimento di un nuovo protagonismo economico-produttivo che rappresentava una base dello sviluppo. Tanto che alcuni di quei piccoli imprenditori negli anni Ottanta e Novanta diventeranno anche medie e grandi imprese. Questo approccio è stato parallelo anche alla responsabilità di dire che i piani dall’alto sono molto più inefficaci”.
Ed eccoci, in conclusione, a qualche commento ad altri passaggi cruciali di quest’ultima intervista di De Rita. Intanto sull’espressione contenuta nel titolo del libro.
Fubini chiede: Così lei diventa «oligarca per caso», essendo nato piccolo-borghese. Al tempo di Putin, oligarca suona brutto. Lei come lo intende? E De Rita risponde:
“L’oligarchia è fatta di persone che hanno una loro personalità e un rapporto orizzontale di fiducia: non mafiosa, ma fiducia. Magari non sono amiche fra loro, ma si riconoscono per la stessa cultura”.
Al centro della discussione la cultura orizzontale contrapposta a quella verticale. Di cui si è già detto qualcosa. Ecco i passaggi. Lei scrive che una società complessa come l’Italia non si può gestire in verticale. Ma, appunto, ha bisogno di una rete orizzontale. Questa oligarchia virtuosa esiste ancora?
«Subito dopo la guerra c’era un’oligarchia di gente come il banchiere Raffaele Mattioli, l’allora Monsignor Giovanbattista Montini, Pasquale Saraceno, Guido Carli. De Gasperi capiva che ne aveva bisogno, li lasciava operare. Poi nei momenti di crisi torna sempre l’idea di risolvere verticalizzando: trovare quello che sa e tiene tutto in mano».
Oggi si chiama governo tecnico.
«O premierato. È l’idea che la società è troppo complessa o che c’è da qualche parte un centro di potere alternativo che non conosco e non mi riconosce. E allora bisogna accentrare. Gli oligarchi sono il contrario, sono la rete orizzontale che vive nel disordine, nella complessità, ma poi finisce per governare di più».
Il potere verticale in Italia non funziona?
«Uno dice: mi ricreo il potere andando in verticale. Poi non ce la fa. Abbiamo avuto la personalizzazione contro Renzi al suo referendum costituzionale, c’è già contro Giorgia Meloni. E se anche ce la facessero, poi si ritrovano a dover gestire i gerarchi, perché quelli avranno aiutato nell’impresa. E i gerarchi sono i più fessi e i meno leali».
Alla fine (tra tante cose che potremmo citare, tra cui quella che fa chiasso nei riverberi di oggi è la rivelazione del ruolo della famiglia della nobiltà papalina Caetani nel caso Moro, attorno a cui il libro in uscita dirà forse più cose) c’è uno spunto su una questione tornata di attualità.
Chiede Fubini. A proposito: lei in vita sua ha legato con tutti, ma con i post-fascisti no. Com’è?
E De Rita risponde:
“Perché si erano nascosti. Io Colle Oppio lo vivevo perché mia moglie abitava lì vicino. Ma loro non stavano nel mondo. Colle Oppio è stata una segregazione per l’autoconservazione e trent’anni dopo, se ne esci, magari hai pure un mercato. In questo hanno avuto bravura e fortuna: avendo mantenuto la fiamma ancora in servizio, nel momento in cui serviva c’era. Ma per chi ha vissuto normalmente, loro non erano normali».
Conclusioni
Sergio Mattarella, Giuseppe De Rita – Quirinale (2024)
Accompagnare con un sistematico affetto, fatto di critiche e di intuizioni propulsive, la grande trasformazione contemporanea dell’Italia, può fare la precondizione per essere un “grande italiano”. Forse non basta. Il riconoscimento del debito morale, culturale e civile per la sua interlocuzione, diretta e indiretta, riconoscimento diffuso e trasversale, consolida questo titolo nell’anno in cui, per merito del presidente Serio Mattarella, la Repubblica italiana ha finalmente dato a De Rita la più alta onorificenza istituzionale, quella di Cavaliere di Gran Croce, che la perspicacia della Repubblica avrebbe dovuto anticipare fin dagli anni Settanta.
12 ottobre 2024
Contributo uscito come Podcast Ilmondonuovo.club, 12 ottobre 2024. Versione scritta: https://stefanorolando.it/?p=9820