Della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese pare sia stato già detto tutto. Ma soprattutto in Italia, salve alcune eccezioni, è stato taciuto molto. Si distingue certamente il pensiero socialista riformista, soprattutto nelle sue venature liberalsocialiste che già a cavallo dei due conflitti mondiali immaginava un futuro di collaborazione dei lavoratori alla conduzione delle aziende.
“Bisogna educare i lavoratori a partecipare all’amministrazione, a rendersi conto dei costi e dei redditi, ad esercitare lo spirito dell’autocontrollo e dell’autogoverno, attraverso ogni plausibile forma di consigli di fabbrica, di associazioni sindacali, di organizzazioni cooperative, sempre basate sul rispetto della libertà e del rispetto della legalità…”
Così Guido Calogero nel 1940[1].
Il filone del pensiero cattolico democratico
Ma esiste da sempre anche un filone di pensiero cattolico democratico in Italia, che sottolinea l’importanza della collaborazione “di classe” per migliorare le condizioni delle classi subalterne nell’ottica del miglioramento, attraverso la dialettica e la mediazione, con la premura di evitare o almeno ridurre il conflitto sociale.
È interessante la storia delle modifiche al contenuto lessicale dell’art. 46 della nostra Costituzione, apportate in sede costituente, in quanto essa riflette le diverse convinzioni ideologiche dei componenti della Commissione sull’impostazione dell’argomento nella Carta costituzionale[2].
Due nomi spiccano nell’elaborazione di politiche sociali in Italia imperniate sull’esigenza di liberare il lavoro da una condizione di mera subalternità, attraverso strumenti di controllo delle imprese: Antonio Gramsci, con i “consigli di fabbrica” a partire dal 1919 a Torino, finalizzati al controllo dei luoghi di produzione nella prospettiva di un’economia pianificata e Rodolfo Morandi, nel secondo dopoguerra, con i “consigli di gestione” oggetto di un importante disegno di legge, con compiti di autogoverno, nella logica della ricostruzione materiale del Paese dopo il fascismo.
I diversi tentativi non hanno sortito effetti positivi, in Italia, anche e soprattutto per le opposte resistenze ideologiche contro l’idea di collaborazione tra esponenti di classi sociali contrapposte. La Confindustria era preoccupata che con i Consigli si potesse ostacolare lo sviluppo strategico delle imprese e in ultima analisi che si favorissero sviluppi eversivi. I comunisti, la cui componente è sempre stata maggioritaria nel sindacato, che si potesse annacquare il conflitto sociale, minando l’unità direttiva della classe operaia, attraverso un eccesso di dialogo.
L’Art. 46 Cost e la proposta della Cisl di promuovere la cogestione
Di qui un testo costituzionale (dell’Art. 46) piuttosto controverso e ambiguo che, puntualmente fa parte di una dei tanti principi della “costituzione più bella del mondo” inattuati[3].
Molti sono stati gli studi e i tentativi anche recenti di riaccendere l’attenzione su questo argomento[4] Si tratta di analisi e proposte finalizzate al suggerimento di progetti di legge per rendere omogenee le forme di partecipazione alla gestione e al capitale, tramite piani di azionariato riservati ai lavoratori dipendenti, che in Italia si sono realizzate.
Nel corso del 2023 la CISL confederale, unica tra i sindacati dei lavoratori, ha raccolto le firme e ha depositato una proposta di legge di iniziativa popolare per promuovere, attraverso incentivi fiscali e contributivi la cogestione delle grandi aziende. È già un sintomo di “esistenza in vita” del tema nel dibattito pubblico. Non è poco, se pensiamo quanto (poco) spazio nei media hanno i temi sociali del lavoro che sono in grado di cambiare la vita delle persone – ad eccezione, di recente, del “salario minimo” e del “reddito di cittadinanza” – rispetto, tanto per fare un esempio, alle infinite discussioni sul “politicamente corretto”.
Il Piano Meidner in Svezia della metà degli anni Settanta
Osservo che il faro, dal punto di vista progettuale, dell’elaborazione fatta in Europa dal pensiero socialista democratico sulla cogestione è ancora il “Piano Meidner” elaborato in Svezia nel 1976, su commissione del potente sindacato dei lavoratori svedesi LO[5].
Si tratta di un vero e proprio progetto economico, solo in parte realizzato in Svezia, anche se poi contrastato dai governi conservatori che sono succeduti. Sicuramente una idea forte che ha ispirato il socialismo del nord Europa, paragonabile per impatto e capacità di coinvolgimento ideale alla riforma sanitaria che assicura in Italia (o meglio assicurava…) un’assistenza di carattere universale[6].
Il piano che il sindacato socialdemocratico svedese aveva approvato si basa in sintesi sull’obbligo da parte delle aziende (tendenzialmente quelle di maggiori dimensioni, ma non solo di quelle azionarie) di accantonare ogni anno il 20 per cento degli utili di esercizio, prima delle imposte, da destinare ai lavoratori. L’esenzione fiscale è accordata in virtù del particolare pregio sociale della proposta. Questa posta “contabile” si sarebbe trasformata in capitale sociale attraverso un aumento gratuito di capitale (un’emissione di nuove azioni nelle S.p.A.) in modo esattamente proporzionale al valore dell’intera azienda (la capitalizzazione di borsa per le S.p.A. quotate). Se ad esempio l’utile d’esercizio è 100, il capitale sociale da assegnare gratuitamente ai lavoratori (corrispondente a un apporto di 20), nel caso in cui l’azienda valga sul mercato 1.000, è pari al 2 per cento del capitale sociale preesistente.
La proposta come si vede non prevedeva una distribuzione di cassa. Ma anche i futuri dividendi spettanti alla parte di capitale detenuta dai dipendenti, avrebbe avuto un impiego di tipo sociale: formazione dei lavoratori, sostegno ai soggetti disagiati, politiche ambientali. Destinatari del capitale di nuova emissione non sono solo i lavoratori dell’azienda ma tutti i lavoratori, compresi i dipendenti appartenenti a settori produttivi che non maturano utili, attraverso un sistema di “Fondi” collettivi, settoriali oppure regionali, rappresentati dal sindacato. In parallelo alla partecipazione al capitale viene prevista la partecipazione dei rappresentanti dei dipendenti nei Consigli d’amministrazione, in minoranza, ma con potere deliberativo. Il Piano ribadisce che l’impianto non ha nulla a che vedere con la contrattazione collettiva e aziendale sul salario e sugli altri aspetti del rapporto di lavoro. Questi sono lasciati alla normale dinamica dei rapporti industriali.
Penso che l’idea abbia, al di là del grado di realizzazione sul quale vi sono scarne notizie e delle diverse criticità, un fascino notevole.
I lavoratori, attraverso autonome forme di rappresentanza (per individuare coloro che sono disponibili a rivestire responsabilità gestionali, a seguito di un percorso di formazione) partecipano al capitale delle imprese. Un capitale che – nel caso di risultati positivi – si incrementa di anno in anno. Quello che aumenta quindi, nel rispetto delle leggi e dell’economia di mercato (nonché dello stato di diritto) è il potere dei lavoratori rispetto al potere dei detentori del capitale. Rudold Meidner ammette esplicitamente che il suo piano si concretizza in un processo di limitazione della ricchezza (l’espressione è mia) a spese solamente da parte dei proprietari di azioni (o quote). La redistribuzione della ricchezza in generale, nonché la tassazione di redditi, immobili e altri asset, viene lasciata alla politica fiscale elaborata dal governo.
Il Piano affronta numerosi aspetti tecnici (nel 1976!) come quello della determinazione dell’utile nei gruppi di imprese, i problemi dati dall’internazionalizzazione dell’economia, il problema delle società madri e figlie residenti in due paesi diversi, assegnando una soluzione ragionata a ciascun problema. L’impianto della proposta è fortemente solidaristico, infatti non c’è spazio per ipotesi di assegnazioni di quote delle aziende a singoli dipendenti secondo lo schema adottato da diverse società in Europa e negli Stati Uniti d’America (stock options). Così come non viene affrontato il problema del passaggio generazionale della proprietà delle azioni assegnate. Il piano immagina un processo dinamico di proprietà “collettiva” che però esclude lo stato, avvalorando la funzione proprietaria dei “Fondi” privati gestiti dai lavoratori.
Una proposta utile da aggiornare quasi cinquant’anni dopo
Penso che un “refreshing” della proposta svedese, possibilmente rivista e corretta, sia attuale e auspicabile; vedremo perché.
Esiste uno squilibrio di potere nelle società europee e nel mondo occidentale in generale[7] che favorisce ceti privilegiati e parti della popolazione che hanno avuto accesso alla parte alta della gerarchia sociale, per nascita o per talento e penalizza fortemente le persone che si occupano dei lavori più umili, oppure meno premiati dal mercato, sebbene intellettualmente elevati, secondo la divisione del lavoro generata dalle nostre economie[8].
La finanza globale e l’allargamento delle prospettive economiche internazionali, se da una parte hanno reso possibile per un gran numero di persone dell’ex “terzo mondo” uscire dalla miseria e in parallelo alle aziende dei paesi industrializzati ottenere nuove prospettive di sviluppo, dall’altra parte hanno schiacciato verso il basso i redditi della maggior parte dei lavoratori dipendenti e di buona parte degli autonomi[9].
Esiste incontestato, soprattutto in Italia, un’esigenza di redistribuzione della ricchezza, sentito anche negli altri paesi occidentali. D’altra parte, lo strumento rappresentato dal prelievo fiscale presenta sempre minor appeal come misura redistributiva, sia per i livelli raggiunti dalla pressione fiscale che per le discussioni sul ruolo dello stato nei processi.
Quindi una partecipazione diretta del lavoro, graduale e disciplinata correttamente, ai risultati delle imprese, appare la soluzione migliore. Aggiungiamo che il coinvolgimento dei lavoratori alla vita e alle scelte aziendali stempera i conflitti e aumenta la produttività, se lo spirito di collaborazione e il senso di appartenenza riescono a sostituire la gestione secondo un paradigma gerarchico delle attività produttive.
Le esperienze limitate di co-gestione in Italia
Assistiamo anche in Italia ad alcune esperienze, limitate perlopiù a grandi gruppi, riguardante l’assegnazione di azioni ai dipendenti o semplicemente ad una contrattazione aziendale che collega la retribuzione effettiva agli aumenti di produttività.
Le questioni sono interconnesse e sono il prodotto dell’elaborazione che teorizza un capitalismo inclusivo e una distribuzione del reddito meno diseguale[10].
La scarsa presa della cogestione nel nostro Paese, oltre alle motivazioni di carattere culturale e ideologico citate in premessa, è da riconnettere dal punto di vista materiale:
- alla presenza di numerosissime piccole piccolissime aziende, in alcune delle quali, magari, la “contaminazione” tra direzione e dipendenti, già avviene, ma che sono inadatte ad essere inquadrate in un processo di entrata dei “fondi” nel capitale dell’impresa;
- alla presenza di un settore pubblico molto rilevante e di conseguenza di un numero elevato di lavoratori che non partecipano agli aumenti di produttività delle imprese private;
- all’importanza del terzo settore, incluse le piccole cooperative, la imprese sociali eccetera.
Questi limiti, tuttavia, rivalutano i fondamenti solidaristici del progetto scandinavo. La focalizzazione della distribuzione del potere sulla singola azienda, con piani di stock option, premia necessariamente i dipendenti delle realtà più performanti, allargando le disparità con il “lavoro povero” o con dipendenti pubblici che hanno accettato peggiori condizioni economiche contro orari più ridotti.
Per un piano di cogestione basato su “fondi” attribuiti collettivamente ai lavoratori
Il progetto di un nuovo piano basato sui “fondi” dovrebbe a mio parere allargare a tutti, secondo il paradigma svedese collettivo, mantenendo magari alcune limitate prerogative ai singoli dipendenti dell’azienda che realizza gli utili, ad esempio in sede di distribuzione di dividendi, per rendere partecipe la forza lavoro degli aumenti di produttività.
Laddove, sia ben chiaro, collettivo non significa statale. La rappresentanza in azienda, la gestione dei “fondi”, le decisioni strategiche sull’impiego delle risorse finanziarie incassate dai “fondi” dovrebbero essere prese democraticamente, per territorio o per settore, con un sistema trasparente. Una proposta del genere sarebbe in grado di ottenere due risultati:
1) l’aumento del potere della componente lavoro all’interno delle aziende, assieme alla crescita culturale permanente dei suoi rappresentanti che saranno in grado di tarare la contrattazione in rapporto ai risultati (conosciuti) di bilancio;
2) la rivitalizzazione del sindacato in quanto “corpo intermedio” della società, rinvigorito dalla domanda di nuove competenze e da una maggiore rappresentatività territoriale e settoriale declinata sulla struttura dei “fondi”.
Naturalmente è sempre presente il pericolo che una gestione troppo allargata di un’azienda possa portare a fenomeni di deresponsabilizzazione, con conseguenti esiti di inefficienza o addirittura fallimentari[11]. Sarà compito dei lavoratori organizzati promuovere cultura di impresa e della ül’espropriazione. Connetto a questo argomento, di carattere “morale”, un’altra possibile eccezione, rappresentata dal fatto che
“lavoro salariato e capitale non sono più indissolubilmente legati fra loro bensì il capitale aumenta anche senza il lavoro di molti”.
Il lavoro, dunque, diventa oggi ancora di più un tema di controllo sociale, riducendosi la sua appartenenza al “regno della necessità”. Ci sono quindi diversi lavori senza capitale (o quasi) e capitali che producono profitto senza lavoro (o quasi)[12].
Capitale, accumulazione dei patrimoni, protezione sociale, “merito” assegnato al lavoro
Mi si permetta una breve riflessione su questi temi.
Il capitale, cioè la dotazione di ricchezza delle persone, considerando naturalmente le dotazioni di una certa consistenza, deriva da una dote familiare oppure dal risultato di un’attività imprenditoriale. Più difficilmente è costituito da risparmi personali prodotti con redditi da lavoro. In alcuni casi esso è costituito da flussi che sono stati già tassati alla fonte (dividendi o capital gain) in altri casi invece no, come nel caso di patrimoni ereditari che in Italia scontano il 4 per cento di imposta nelle trasmissioni di padre in figlio, anche se superano la franchigia (entro la quale non si paga nulla) di un milione di euro.
In ogni caso l’accumulazione dei patrimoni, al di là delle abilità personali, della dedizione, della genialità di chi l’ha realizzata, dipende grandemente dal quadro delle regole sociali e dunque giuridiche delle economie capitalistiche, che ammettono e garantiscono redditi che derivano dalla pura rendita e anzi in molti casi li premiano con un’imposizione più vantaggiosa rispetto a quella che grava sul reddito da lavoro, come nel caso in Italia della cedolare secca sui redditi immobiliari (il 10 per cento o al massimo il 21 per cento), dell’imposta sostitutiva sui redditi finanziari del 26 per cento, per non parlare della flat tax del 15 per cento sui redditi di impresa entro gli 85 mila euro di fatturato.
La “protezione sociale” garantita al capitale, tanto maggiore quanto più è elevata la sua entità, discendente dal diritto alla proprietà privata degli individui (ai proprietari di un appartamento di 60 mq. come ai multimiliardari) è funzione dell’organizzazione sociale. Se il sistema protetto dallo Stato di diritto nelle economie occidentali (per nostra fortuna ce l’abbiamo e non ci è toccata in sorte una cleptocrazia come la Russia o un sistema capitalistico autoritario come la Cina) produce i risultati che abbiamo descritto e garantisce stabili prerogative ai “proprietari”, è anche grazie all’acquiescenza rispetto alle regole di tutti gli altri, Anche di coloro che “non sono proprietari” o che lo sono in misura limitata. Il riconoscimento di un “merito” assegnato al lavoro, misurabile oggettivamente attraverso un quantum salariale, è fondamentale per garantire le prerogative proprie della ricchezza. Questo “merito” è come sappiamo estremamente soggettivo e dipende dal mercato in cui il lavoro viene svolto; non a caso a parità di funzione e di livello le retribuzioni medie, ad esempio, in Italia – per restare in Europa – sono molto inferiori rispetto agli altri paesi[13].
Il capitale che sovente si moltiplica per due, per tre o per dieci attraverso le mirabili opportunità messe a disposizione da un capitalismo finanziario scarsamente regolato (che anche per questo spesso genera delle crisi sistemiche) ha un “debito d’onore” nei confronti di chi non ce l’ha.
Un debito rappresentato da emissioni in atmosfera e consumo di risorse naturali non più tollerabile. Un debito nei confronti di chi lavora e di chi si impegna ogni giorno con fatica e con giudizio contribuendo allo sviluppo e all’innovazione di prodotti e processi.
Ma il “debito d’onore” non può essere pagato espropriando, bensì “piegando” il sistema in favore di chi non riesce a partecipare alla festa, attraverso una convinta e continua azione riformatrice.
Un liberale come Ralph Dahrendorf, considerando che la produttività, intesa come produttività del lavoro, perde sempre più significato nella società moderna, mentre cresce la produttività tecnicizzata, ovvero la produttività che si auto alimenta grazie alla tecnologia realizzata grazie all’impiego del capitale, considera che:
“I nostri sistemi fiscali sono pur sempre fondati sul ruolo centrale della tassa sui salari e sui redditi, benché il reddito da lavoro abbia sempre minor rilievo. In ogni caso non si può a lungo conservare un sistema in cui la fonte vera e propria degli aumenti di produttività, ossia il capitale, non viene significativamente tassata, se desideriamo un’infrastruttura pubblica che promuova in pari misura il lavoro e il tempo libero”[14].
Conclusioni
La proposta di un piano di cogestione attraverso il sistema dei “fondi” attribuiti collettivamente ai lavoratori risponde a mio avviso a queste esigenze, superando il concetto di tassazione, anzi evitando qualsiasi prelievo, dato che il capitale emesso a fronte della quota di utili attribuiti al lavoro rimane investito in azienda.
Risulta chiaro quindi che la proposta non aumenta i costi delle imprese, visto che la redistribuzione agisce sui profitti, dunque, non offre alle stesse un’occasione di alimentare la spirale inflazionistica, come nel caso di un incremento dei salari. Tanto meno essa diminuisce forzosamente la capacità di autofinanziamento degli investimenti, dato che il pagamento di dividendi – se attuato – rimane sempre una facoltà rimessa all’assemblea dei soci.
Permangono naturalmente molti spunti di discussione, come ad esempio l’esistenza di una forte connessione internazionale delle nostre economie, grazie alla quale molte imprese potrebbero dare seguito alle naturali pulsioni alla fuga. Evidentemente questa proposta dovrebbe essere sostenuta a livello dei paesi (come minimo) di una rinnovata Unione Europea, non potendo permettersi un singolo stato alcun “effetto Cile” ai provvedimenti di riequilibrio sociale interno[15]. In futuro provvedimenti come questo dovrebbero essere inclusi nei framework relativi ai principi di sostenibilità, almeno nelle economie sviluppate.
I numerosi aspetti critici e le innumerevoli declinazioni possibili della proposta potrebbero già da domani entrare a fare parte del dibattito interno alla sinistra riformista, superando il silenzio assordante di proposte concrete, particolarmente imbarazzante in un quadro di stanchezza e di astensionismo da parte di chi, non ancora ammaliato dal semplicistico paradigma delle destre “dio patria famiglia”, aspetta qualcosa di concreto preferendo per il momento di non andare a votare.
Bologna, settembre 2024
[1] Dal “Primo Manifesto del liberalsocialismo” ripubblicato nel volume di Guido Calogero, L’ABC della democrazia, Milano, Chiarelettere, 2019, XXVII-112 p.
[2] Rimandiamo al recente intervento, molto completo, di Federico Caporale, Emiliano Frediani “La Costituzione dimenticata. Dai consigli di gestione alla partecipazione al rischio delle imprese”, Rivista trimestrale di diritto pubblico LXX I (1), gennaio-marzo 2021, pp. 279-304.
[3] Art. 46. Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
[4] Di particolare pregio sono gli interventi su La voce.info di Raffaele Lungarella e Francesco Vella: Lavoratore e azionista, due ruoli che si conciliano poco, dell’11 novembre 2021 e Le nuove vie per la partecipazione dei lavoratori del 22 febbraio 2022.
[5] È ancora reperibile il volume di Rudolf Meidner, Employee investment funds. An approach to collective capital formation by Rudolf Meidner with the assistance of Anna Hedborg and Gunnar Fond, London, Allen and Unwin, 1978, 132 p. Traduzione italiana da questa edizione inglese di Eugenia Monterisi; Capitale senza padrone. Il progetto svedese per la formazione collettiva del capitale, Roma, Edizioni Lavoro, 1980, 167 p. L’Edizione originale in svedese risale al 1976: Kollektiv kapitalbildning genom löntagarfonder. Rapport till LO-kongressen 1976, Stockholm, Prisma i samarbete med Landsorganisationen i Sverige, 1976, Tillverkad, Lund, Berling Svenska, 320 p.
[6] Sono molto importanti e ricche di spunti per il dibattito altre due esperienze evolutesi nel corso del dopoguerra: l’esperienza tedesca nota come Mitbestimmung, il sistema di cogestione dei lavoratori riconosciuto per legge, soprattutto dal 1976 in avanti e l’esperienza del sindacato israeliano Histadrut che ha contribuito a creare nella società un vero e proprio modello di economia sociale di mercato. La cogestione tedesca ha permesso nelle imprese di maggiori dimensioni un controllo e un coinvolgimento dei lavoratori alle scelte aziendali riconosciuto e normato dallo stato. Il modello israeliano, fortemente influenzato dal sionismo e dall’elaborazione politica socialista e laburista ha permesso al sindacato di possedere e di gestire tramite i propri rappresentanti democraticamente eletti aziende, fondi pensione, farmacie, case di cura. Insomma un vero e proprio sistema economico “parallelo” a quello capitalistico. In questa sede non approfondiamo, per ragioni di spazio, le caratteristiche dei vari modelli, preferendo focalizzarci sulla proposta di partecipazione ai risultati economici delle imprese, con il sistema dei fondi.
[7] Che è il perimetro geografico che in questa sede ci interessa, anche se sappiamo bene che gli squilibri non mancano di certo nelle altre aree.
[8] Una interessante e condivisibile disamina dei volti del potere e delle diseguaglianze è contenuta in Alessandro Roncaglia, Il potere. Una prospettiva riformista, Roma-Bari, Laterza, 2023, 304 p.
[9] Su questi temi si confrontino anche le tesi di Branko Milanovich, Capitalism, Alone. The Future of the System That Rules the World, Harvard, Belknap Press, 2019, 287 p. Traduzione italiana: Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro, Roma-Bari, Laterza, 2020, 336 p.
[10] Si vedano le analisi e le tesi dei libri: Michele Salvati, Norberto Dilmore, Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Milano, Feltrinelli 2021, 272 p. e Andrea Graziosi, Occidenti e Modernità. Vedere un mondo nuovo, Bologna, Il Mulino, 2023, 216 p..
[11] Mi riferisco alle passate vicende in Italia centro settentrionale che hanno coinvolto alcune grosse cooperative di costruzioni. È comune la sensazione che direzioni aziendali impreparate e autoreferenziali abbiano concorso a commettere gravi errori che hanno portato alla crisi delle imprese.
[12] Ralph Dahrendorf, Auf der Suche nach einer neuen Ordnung. Eine Politik der Freiheit für das 21. Jahrhundert, München, C.H. Beck, 2007, 157 p. Traduzione italiana: Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Roma-Bari, Laterza, 2005, VII.143 p- [si veda p. 47].
[13] In Italia, come risulta dal sondaggio IPSOS di luglio 2024, i neo-laureati all’estero ottengono un reddito mensile medio di euro 2.174, il 56 per cento in più rispetto a chi è rimasto in Italia (stipendio mensile medio di poco meno di 1400 euro). Da Il sole 24 ore, 7 luglio 2024. Sempre in Italia, come risulta dal OCSE Employment Outlook, i salari reali medi all’inizio del 2024 erano più bassi del 6,9 per cento rispetto al livello registrato nel corso del IV° trimestre del 2029 (pre-pandemia).
[14] Ralph Dahrendorf, op.cit. alla nota 12, p. 52.
[15] Mi riferisco al boicottaggio da parte degli USA e della finanza internazionale avvenuto a partire dal 1971 contro il Cile del Presidente Salvador Allende, culminato con il golpe del 11 settembre 1973.