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Il governo italiano come la gente, metà a favore e metà contro

Il voto al Parlamento europeo per il rinnovo del mandato a Ursula von der Leyen

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La doppia doppiezza dell’Italia

Archiviate le elezioni europee, la politica ha rapidamente trovato – finito lo spoglio – i vantaggi e gli svantaggi rispetto al suo modo di ragionare. Quanto all’esito delle urne, la principale criticità è stata il 51 per cento di astenuti. Picco storico negativo. Tema liquidato: quelli non contano, perché hanno deciso di non contare. Politicamente allora i vantaggi? Alla fine, voto largo al Parlamento, soprattutto maggiore chiarezza politica sulla maggioranza di governo. Lo skyline della governance, è rimasto quello; con un consolidamento ambientalista che è politicamente naturale e utile ma che non sarà una passeggiata

Diciamo cambiamenti ragionevoli. Niente sconquassi.

A leggere le proposte di governo non c’era realmente un’altra strada da percorrere, se non la paralisi. Le opposizioni, soprattutto a destra, numeri a parte, non presentavano nulla di veramente pronto per una seria alternativa. Le destre con conflitti interni, senza programma, poche idee sulla sostenibilità e sulla competitività, le due manovre più importanti. Appunto perché dominate da nazionalismo e sovranismo, senza una vera visione di insieme, dunque globalista, del futuro dell’Europa, ma con un rimescolamento di carte all’interno di certi gruppi che segnala la necessità di mantenere piuttosto la postura dell’opposizione.

Insomma, il nazionalismo europeo è per ora immaturo, scimmiotta cose del passato e si caratterizzata per una generica deprecazione polemica contro l’Europa burocratica, ovvero invadente, ovvero “senza anima”. Eccetera eccetera.

Senza robusta visione di quadro globale è difficile porsi credibilmente il tema di come governare l’Europa, se non con l’agenda del giorno per giorno.

Ed è in questa cornice che si è infatti sciolto l’interrogativo (protratto fino all’ultimo minuto) sul voto della premier italiana e del suo gruppo di europarlamentari. L’ ambiguità è arrivata a scadenza. Speriamo che adesso la premier misuri di più l’espressione “interessi nazionali”. Questa volta ha scelto dichiaratamente gli interessi di partito. Succede.  È già successo. E ‘ interessante, tuttavia, che l’incertezza si sia protratta fino all’ultimo, qualche cosa vuol significare. Ma speriamo che si evitino retoriche e contorsioni. L’esito per l’Italia è complicato. Prepariamoci a coesistere con la doppiezza della cultura di governo (si fa per dire) in casa e la serie B in Europa. Sempre che si possa chiamare “cultura di governo” avere un primo ministro che vota contro la maggioranza che governa l’Europa chiamandosene fuori e il suo ministro degli Esteri che vota a favore riconoscendo di farne parte.

Ciò chiarito, torniamo al dato di fondo di una spaccatura di sentiment che riguarda non solo il governo ma anche gli italiani. E riguarda l’idea stessa di Europa, cioè misurandone i suoi vantaggi e i suoi svantaggi.

Poco si discuteva prima – cioè, in campagna elettorale – poco si discute dopo, a voto acclarato. Il “programma” (pur confezionato abilmente quello di Ursula von der Leyen) è un gioco di parole per formalizzare le adesioni. Altro è quello che nascerà adesso sui bilanci e sull’attuazione delle policies.

Anche i media stanno poco sui contenuti, sui nodi, sulle opzioni. Quella è materia per la stampa economica e per le riviste di geopolitica. Tutto il resto ruota attorno ai nomi. Su chi fa questo e chi fa quello. Come ne esce Macron, come ne esce Meloni, cosa porta a casa l’Italia. E per ora come si passerà indenni il semestre europeo a guida ungherese. Per il momento, dopo l’altolà di Charles Michel, la trovata di contenimento appare quella che i ministri disertino le riunioni per non dare alibi a chi gira nel mondo a nome di tutti i 27. Adesso il copione per i media italiani non è così difficile. O dovrei dire forse che è molto difficile? Bisognerà raccontare giorno per giorno questa storia chiara e al tempo stesso sterile.  In Europa noi abbiamo due terzi del governo che stanno all’opposizione del governo von der Leyen e un terzo che se ne considera parte.  Avremo, come era scontato, un buon posto in Commissione e questo ci eviterà il danno ulteriore che sarebbe stato uscirne facendo le vittime. Quale sarà oggi la narrazione europea del governo italiano? Al meglio un giorno rossa, un giorno nera. Lo vedremo.

E veniamo alla domanda di rito in questa rubrica, già evidenziata.

Supposto che la nuova governance dell’Europa si ponga davvero il problema di spiegarsi, come si rappresenteranno i prossimi processi europei?   Tradotto in una parola di moda ma equivocata, come si comunicherà la nuova Europa?

Circola in questi giorni una tabella proposta dall’istituto demoscopico SWG di Trieste che va al nodo del rapporto dell’opinione (in questo caso degli italiani) sull’Europa. La tabella contiene la risposta alla domanda: ma l’Unione europea ha prodotto più vantaggi o più svantaggi ai 449,2 milioni di cittadini residenti? Qui rispondono gli italiani, ma è possibile che il dato medio della risposta europea non si scosti clamorosamente da questo trend. Propongo la tabella a fianco del link per l’audio di oggi, per consentire a chi vuole di vedere la diversa corsa della linea grigia (svantaggi) e della linea rossa (vantaggi).

Vantaggi/Svantaggi fa un po’ arricciare il naso a chi pensa che l’identità europea dovrebbe accomunare o dividere soprattutto per ragioni valoriali. Sempre ricordando come e perché l’Europa è stata unita dopo l’immensa e devastante guerra civile, tra europei, nel 1945. Ma è comprensibile e giusto che quei valori si debbano oggi misurare con l’insieme dei fattori che per una grande comunità significano anche altro.

SWG Radar – 14 luglio 2024

Significano l’estensione alla qualità della vita, alla sicurezza, al benessere, alla qualità sociale, alla mobilità, alle garanzie, ai controlli, all’occupazione, al reddito.  Insomma, le ragioni per cui oltre ad una idea di “patria” bisogna anche ritrovarsi in un bilancio, in un fondamento giuridico, in un’etica pubblica, in un sistema di tutele e di garanzie e soprattutto in un quadro di convivenze metabolizzabili. Gli uni con gli altri.

Il “percepito collettivo” ci mostra che la società in Europa si è molto uniformata. Che le religioni non sono più in rivalità violenta (parlo delle tendenze diverse del cristianesimo ma anche di un certo maggiore ecumenismo). Che l’abbigliamento ha caratteri molto convergenti, così la cucina, le forme delle abitazioni, i mezzi di traporto, la natura del lavoro e delle professioni, lo sport. Eccetera eccetera.

Dovrebbe, questo aspetto, essere considerato non solo come uno dei tanti vantaggi. Ma come un immenso vantaggio rispetto a fattori dietro a cui ci stati sono secoli di guerre feroci e di persecuzioni. I gruppi politici aggregati in seno al Parlamento europeo sono l’altra “rappresentazione” di queste convergenze. Non proprio partiti europei, ma forti avvicinamenti per visioni, teorie e valori. Anche qui un cambiamento colossale rispetto alla situazione della politica che solo ottant’anni fa scatenò per la seconda volta nel secolo una catastrofica guerra prima europea e poi mondiale.

Eppure, se guardate queste due curve cogliete pochissimo questa opinione tra i nostri connazionali. Quell’immenso vantaggio forse è rimasto nelle pagine di storia ma non ha più trovato posto nel copione popolare di tutti i giorni. Le vedete flettere, ridursi, cadere anno per anno. Come se ci fosse qualcosa di oscuro, malsano, indicibile, a negare l’evidenza. Ovvero a generare nel cuore della gente un’altra evidenza. In cui prendono corpo ombre, poi magari fantasmi. Ma alla fine è inutile girare attorno alle parole: i fantasmi si incarnano, diventano opinioni, giudizi, posizioni. Nel 1997 i vantaggi erano a quota 57, superavano di quasi 20 punti gli svantaggi, che erano al 38. Fino al 2011 – pur scendendo entrambi i fattori antitetici, il più e il meno della sostanza immateriale dell’essere europei – le curve si inclinano.   Poi quella scura, quella degli svantaggi, risale, non a balzi, ma con continuità.

Nel 2019 combaciano. Ma ormai entrambe sono scese sotto il 30 per cento. Cioè, il giudizio trova disinteresse del grosso della popolazione. Ormai – in termini di opinione pubblica – il primo partito è quello che non risponde nemmeno, sta altrove.    L’intreccio va avanti in questi ultimi anni. La pandemia fa paura e scuote un po’ la curva dei “vantaggi”, che infatti risale. E con piccoli alti e bassi il 2023 si chiude con un filo di guadagno del giudizio “L’Europa è un vantaggio” rispetto all’opinione contraria: 29 contro 26. Ma 29 + 26 fa 55. Dunque, il 45 per cento resta fuori, non appare coinvolto nella risposta decisiva se si vuole parlare di identità e di appartenenza.

Preso da continue antinomie (euroscettici/eurottimisti – europeisti/ sovranisti – nord/sud – est/ovest – eccetera) è chiaro che il commitment europeo abbia abbassato sempre più i toni della comunicazione. Ormai, tuttavia, appare forte la conseguenza di molte mancate spiegazioni. Perché le ragioni dell’Europa non hanno bisogno di propaganda, ma di un grande accompagnamento sociale a comprendere i problemi. Con molti obiettivi: spiegare lo sforzo di mediazione, trovare soluzioni condivise.  E poi anche provare a scegliere terreni vasti in cui davvero si incontra la gente. Insomma, la comunicazione non può riguardare solo gli aspetti politici, le dinamiche di funzionamento, sempre avendo come protagonista la politica.

Una comunità vuole anche sentire che la società stessa diventa protagonista delle narrazioni. Nella società c’è l’impresa, c’è il lavoro, c’è la creatività, c’è lo spettacolo, ci sono gli sport. C’è la laboriosità delle comunità locali, ci sono le famiglie. Ci sono le felicità e le paure. Bisogna immaginare che, per il corso della sua futura comunicazione, l’Europa non continui a limitarsi a dati di bilancio e ad annunci sostanzialmente politici. La narrazione sociale dell’Europa sarebbe la più grande impresa oggi possibile per i sistemi mediatici e comunicativi per modificare quelle due maledette curve che raccontano la realtà, ma che probabilmente non dicono la verità. Se al contrario venisse in mente a qualche “esperto” di fare più comunicazione d’effetto – un misto di pubblicità commerciale, di marketing dell’aria fritta – questa sarebbe la fine dell’Europa. Le narrazioni che mancano sono legate alla letteratura, al cinema, alla fiction, all’arte, alla trasformazione dello sport e alla sua nuova ibridazione sociale. Cioè, alle narrazioni che trasudano verità non cipria. Ma senza stimolo, studio, regia – e soprattutto senza riaprire spazi di libertà creativa – noi avremo solo campagne ufficiali su dati ufficiali. Non il racconto di un popolo che non ha ancora preso coscienza di quanto esso – nei suoi vantaggi preliminari e pregiudiziali – debba all’Europa. Un popolo che ormai si nasconde a metà, mentre l’altra metà si affronta divisa, l’una contro l’altra, secondo le migliori tradizioni medioevali dell’Europa bellicosa e violenta.

Fin che non avremo sviluppato questa storia intesa come un romanzo popolare, l’Europa sarà anche ininfluente a dimostrarsi capace di mettere la parola fine alle guerre che stanno alle sue porte. E questo non è oggi un dettaglio.

Il “romanzo popolare” che, alla fine è stato scritto sottovalutando la tendenza dei governi nazionali dalla crisi finanziaria del 2008 in poi a dire: quel che va bene è merito mio, quel che va male è colpa dell’Europa. Alla fine – complici prevalenze tecnocratiche, crisi decisionali, conflitti politici – da quasi vent’anni sulla cittadinanza europea lavorano pochi istituti e nuclei di tradizione europeiste. Non le istituzioni nel loro complesso.

Ci sono le Lettres Schuman che insistono sulla strategicità dell’Europa. Ci sono le appassionate iniziative sul futuro dell’Europa del Movimento europeo (Consiglio italiano in testa). Ma nella narrazione ufficiale restano solo bandiere, palazzi e auto blu che scaricano ministri. Così sull’Europa antiburocratica tuonano gli europeisti di tradizione ma anche e soprattutto i populisti (di destra e di sinistra). contro quel nemico: “l’Europa burocratica, che comanda e impone”. Alla fine, questa tenaglia è andata prevalendo. E questa tenaglia dovrebbe scuotere e muovere l’elaborazione politica moderna, riformatrice, progressista, razionale dell’europeismo. Andando incontro a un progetto di narrazione europea che faccia ordine in questa tenaglia. Non è questo un obiettivo di contorno. È un tema strategico.

Se hanno vinto gli europeisti   e non i sovranisti credo che dovrebbe esserci un immediato riverbero sulla rappresentazione pubblica dell’idea di Europa.   Naturalmente ammetto che se si torna a parlare di “Europa strategica” non basterà la comunicazione. Un’ancora sulla nuova regolazione degli interessi nazionali sarà necessaria. E per l’Italia – come ha scritto Mario Monti sul Corriere della Sera di mercoledì 17 luglio, rivolgendosi direttamente alla presidente Meloni – si tratta non tanto di dare i voti a Ursula von der Leyen ma di sterzare il volante su aspetti di sostanza. Monti è andato oltre alla questione del voto a favore o contro Ursula von der Leyen e ha offerto una pista di posizionamento pragmatico di dialogo soprattutto trilaterale tra Italia, Francia e Germania per

“non mendicare sconti sul patto di stabilità o bloccare le procedure di infrazione contro le continue violazioni di principi di buon senso, ma che sono scomodi per un’incallita pervicacia elettoralistica, ad esempio nelle concessioni balneari”.

Avrà ascolto tutto ciò a Palazzo Chigi?

Italian Prime Minister, Giorgia Meloni (L), with Senator Mario Monti (R), ahead of a confidence vote for the new government, at the Senate in Rome, Italy, 26 October 2022.

La partita, come è naturale che sia, si sta giocando non tanto con l’artiglieria dell’Europa dei vecchi costruttori valoriali ma con coloro che devono fare patti oggi con il sistema degli interessi che l’Europa esprime e che in parte l’Europa subisce.  Per altro guai se così non fosse. Finiremmo con lo sguardo al passato e finiremmo a sfogliare l’album di famiglia e non a scrivere i progetti oggi necessari.

Ma quel “romanzo popolare” che auspico a base del rinnovamento della comunicazione europea ha bisogno del realismo dei poteri contemporanei, ma anche della forza culturale e filosofica di chi ha avuto la genialità della controtendenza rispetto all’egoismo e al nazionalismo del Novecento. Fattori che oggi in Europa e nel mondo stanno purtroppo ricondizionando la politica e il significato stesso della democrazia.

Quel “romanzo popolare” ha dunque bisogno di un’idea moderna, ma – lo ripeto, per essere chiaro – sociale non commerciale, della comunicazione. Correggendo pesantemente il tiro della comunicazione politica e istituzionale che ha farneticato negli ultimi trent’anni che vendere il patrimonio simbolico pubblico come un formaggino fosse una grande trovata. Peccato che in questa partita – di rilancio valoriale della cittadinanza europea – l’Italia, paese che ha risorse creative, narrative e culture dello sviluppo interessanti, conterà poco, pochissimo. Perché il governo italiano – spaccandosi in due sul voto alla Commissione – e i cittadini italiani – dividendosi in due sul bilancio di vantaggi e svantaggi – hanno deciso, all’italiana, di non decidere. In questa partita. E di giocare ancora solo e codardamente di sponda.

Con la Francia ripiegata su sé stessa e l’Italia non coinvolta a fondo, la cultura euromediterranea che avrebbe un ruolo straordinario e non elitario di raccontare l’Europa è affidata oggi (un po’ come avviene anche nello sport) alla Spagna. Peccato.

Milano, 18 luglio 2024

Stefano Rolando
Stefano Rolando
Insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio.

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