Forse in questo momento nel mondo, pensando ai destini del mondo stesso, non c’è un altro tema così simile a ciò che per gli antichi greci era la rappresentazione della tragedia, intesa come fatto corale e al tempo stesso come fatto individuale. In questo momento domina lo scontro in negativo tra chi dice “troppo tardi” e chi dice “troppo rischio”. Gli ingredienti drammaturgici sono tutti in campo per far capire che siamo allo show-down. La trovata, la soluzione, la decisione che chiuderà il copione. In questi casi, un paradigma degli sceneggiatori consiste nel far intervenire il rovesciamento del paradigma di apparenza. Se oggi esso è dominato dal rischio, si dovrebbe pensare a scovare il fattore opportunità.
L’età del Presidente Biden: un rischio o un’opportunità?
Forse è questione di giorni, forse di ore. Forse quando mi ascolterete si parlerà al passato della questione.
Ma trattando questa audio-rubrica del tema trasversale della “rappresentazione” (politica, media, cultura, società), in questo momento nel mondo non c’è un altro tema così simile a ciò che per gli antichi greci era la rappresentazione della tragedia, intesa come fatto corale e al tempo stesso come fatto individuale.
Nato nel 1942 (in questo momento ancora 81enne), a Scranton in Pennsylvania, famiglia di origine irlandese, dunque famiglia cattolica, Joe Biden viene eletto senatore federale del Deleware nel 1972; è a lungo presidente della Commissione Esteri del Senato americano, conosce e dialoga con il mondo intero; è due volte vicepresidente degli Stati Uniti, con Barack Obama presidente, dal 2009 al 2017.
Poi iniziano gli anni della forte trasformazione della politica americana. L’avvento sulla scena di Donald Trump introduce populismo soprattutto nel voto repubblicano (che comincia a erodere la base sociale del voto democratico). Trump sconfigge Hillary Clinton – che Biden aveva sostenuto nella sua campagna – e di fronte all’ipotesi di un secondo turno di Trump, Biden è scelto nel 2020 come il candidato giusto, una sorta di baricentro di tante tendenze al voto contro il carattere estremistico del candidato repubblicano.
E vince con una montagna di voti (81 milioni). E sulla scorta di queste vicende, con il ritorno di Trump in campo (ancor più caratterizzato da movimentismo anti-istituzionale) e in un positivo contesto tuttavia dell’economia americana anche sotto il profilo sociale, in questo 2024 l’apparato dem lo ritiene ancora il candidato migliore per fronteggiare il rischio (per gli Stati Uniti e per il complesso quadro internazionale) di un ritorno di Trump.
Non è anzianissimo. E comunque noi italiani dobbiamo sempre ricordare che il mandato a Sandro Pertini, per fronteggiare crisi politica e crisi di reputazione istituzionale nel 1978, avvenne tenendo conto degli 82 anni dell’esponente socialista italiano che sarebbe stato impegnato al Quirinale per sette anni, cosa che fece con fantastica tenuta.
Biden, all’inizio della campagna, surclassa Trump nell’approvvigionamento finanziario e mette d’accordo il gruppo dirigente democratico, le figure più conosciute del sistema, tendenzialmente il grosso dei media di reputazione. Cosa complessa nell’evoluzione conflittuale del gruppo dirigente dei democratici. Biden conferma il ticket con la sua vice, Kamala Harris, nata Oakland nel 1964, 59 anni, madre indiana e padre giamaicano, avvocato, magistrato, già senatrice della California e prima procuratrice generale della California.
Ma a un certo punto – a parte alcune vicende legate a processi intentati al figlio – negli ultimi mesi del crescendo della campagna elettorale (si vota a fine anno) il presidente a poco a poco svela tratti di salute incerta. Non tanto salute fisica, ma questioni di sfasatura neurologica, soprattutto connesse alla memoria.
In questi giorni, per riassumere questa criticità ma anche per la tenacia di Joe Biden di voler mantenere la sua candidatura, Emilio Giannelli, celebre vignettista senese del Corriere della Sera, ha riassunto le cose con la battuta “L’età (scritta in italiano) c’est moi!. Battuta che ho preso a prestito per intitolare questo commento.
Gli episodi – pur nel quadro di un controllo generale della situazione – si sono reiterati. Ci si metta pure lo stress, la pressione, le indiscrezioni, le morbosità dei media. Ma gli ultimi episodi sono indizi scappati al self control. Al vertice Nato con le telecamere di tutto il mondo puntate su di lui, Biden ha chiamato Zelens’kyj Putin (e si è corretto subito dopo) e ha chiamato la sua vice Trump. Minuscole (ma clamorose) sfasature delle sinapsi.
Il caso diciamo così neurologico (che andrebbe visto con molta più profondità, ascoltando chi dice che può peggiorare ma anche chi dice che può migliorare) si confonde con altre complessità del copione.
C’è un caso politico nazionale e mondiale.
C’è una problematica “democratica”, nel senso di come si formano le decisioni in un contesto altamente costruito su dinamiche di apparenze.
E c’è se vogliamo il nodo drammaturgicamente più interessante, tra ciò che è ponderabile e ciò che è imponderabile in questo processo decisionale.
Due candidati “uno delinquente e l’altro deficiente”. Troppo tardi o troppo rischio per un cambio?
Questi nodi nascondono la naturale divisione dell’opinione pubblica.
In cui si formano non solo baricentri ben ponderati, ma anche spinte al dileggio (la battuta che circola in America da mesi sui due candidati “uno delinquente e l’altro deficiente”).
E dall’altra parte anche sentimenti solidali, per lo meno di coloro che non pensano che l’età sia la natura di tutti i mali e che non si debba trasformare in stigma. Pur cercando di capire le soglie reali dei rischi.
Si vota il 5 novembre del 2024. Dunque, siamo a un metro da un limite invalicabile per qualunque decisione. Mancano meno di quattro mesi. In questo momento domina lo scontro in negativo tra chi dice “troppo tardi” e chi dice “troppo rischio”. Questa tensione ha creato per giorni e giorni indecisione politica. Cioè, ha diviso chi ha qualche influenza sulla decisione e ciò ha fatto maturare in Joe Biden l’opinione (che in una persona della sua storia appare come uno sforzo di responsabilità più che di spavalderia) di mantenere il punto sulla candidatura. E questo malgrado fattori forti di criticità: perdita di alcuni punti nei sondaggi e blocco di 90 milioni di dollari da parte dei donatori finanziari della campagna.
Ed è stata proprio la prolungata indecisione della politica (anche se proprio a causa degli ultimi fatti, alcuni big si vanno muovendo, tra di essi lo stesso Barack Obama e l’anziana ma influente ex speaker della Camera Nancy Pelosi) che ha messo in campo il fattore potente nelle vicende americane che sono le celebrities.
Sono figure che dominano le cronache perché legate allo spettacolo (cinema e musica soprattutto), all’arte, ai media e alla pubblicità, In cui si delineano due motivazioni di base: da un lato la percezione della crescita del vantaggio dell’odiato avversario; ma dall’altro lato la “rappresentazione” di un pensiero importante nei consumi (soprattutto estetico-culturali) riguardante ’opinione dei giovani (che, come categoria mondiale, considerano uno anziano dopo i “cinquant’anni”).
L’ingresso in campo delle celebrities per decidere come chiudere il copione
Mescolando ragioni e qualche luogo comune, alcune di queste figure hanno avuto il top dell’agenda.
Tra gli attori Michael Douglas e George Clooney (di cui si dice che potrebbe essere il candidato, con moglie adeguata, per il 2028); tra scrittori e giornalisti Stephen King e George Stephanopulos; nel sistema di impresa dello spettacolo una donna con cognome importante, Abigali Disney. E l’elenco potrebbe continuare. Non sono loro che decidono. Ma l’onda spinge finanziatori e leader politici.
Con la persistenza di alcune diffidenze verso Kamala Harris in ragione di una certa impopolarità. Anche qui con margini sfumati, perché non si discutono comproviate capacità, ma c’è chi parla di fattori etnici, distinti da quelli afro-americani; chi parla di una certa sobrietà mediatica che confina con la sfuggente percezione da parte del popolo, eccetera. Insomma, gli ingredienti drammaturgici sono tutti in campo per far capire che siamo allo show-down. La trovata, la soluzione, la decisione che chiuderà il copione.
In questi casi, un paradigma degli sceneggiatori (ho lavorato in questo campo per un po’ di tempo e ho persino avuto l’onore, grazie a Franco Cristaldi, di essere parte per alcuni anni della giuria del Premio Solinas) consiste nel far intervenire il rovesciamento del paradigma di apparenza.
Trasformare il rischio in un’opportunità
Se oggi esso è dominato dal rischio, si dovrebbe pensare al fattore opportunità. E per un sistema democratico l’opportunità può significare molte cose. Certo vincere conta moltissimo, ma salvare il futuro anche. Certo Trump è un rischio reale, ma – come dimostrò Biden in una elezione di mid-term – anche esercitare un controllo sostanziale può significare una base di trasformazione e, a breve, una trasformazione in senso offensivo della campagna ora tutta in difesa. Non siamo qui per dare soluzioni da battuta al bar. Il tema è altamente specialistico, ma non solo iscritto nei misteri del marketing. Ma diciamo anche in quelli – certo più affascinanti – della filosofia.
Per esempio, nel trattamento dell’avversario, Donald Trump, è quasi sempre collocato nella narrazione della sua continuità. Torna Trump, torna il suo populismo affaristico e catastrofistico. Ma se cambia lo scenario, Trump può essere raccontato non come una continuità ma come una evidente anomalia.
Bisogna anche che queste analisi emergano dal dibattito politico-mediatico. Perché, se stiamo solo e sempre sul tema età/effetti di memoria, la si dà vinta al ruolo delle celebrities, mentre bisognerebbe parlare in maniera più complessa dell’evoluzione del sistema politico e sociale degli Stati Uniti e dell’Occidente.
In ogni caso, tra i cambiamenti di sistema, ricordiamoci che anche Donald Trump apparteneva alle celebrities non ai partiti. E, in un certo senso, con il suo successo politico ha elevato il rango decisionale o comunque rappresentativo, del settore.
Oggi si legge che scalderebbe i muscoli Gretschen Whitmer, cinquantaduenne democratico-progressista, da noi perfetta sconosciuta, ma in realtà governatrice del Michigan, uno dei tre stati chiave per l’esito elettorale.

Gretschen Whitmer, governatrice dem del Michigan
Si leggono anche le opinioni di alcuni politologi americani (oggi per esempio Bill Schneider, che va per la maggiore) che pensano che Trump perderà alla fine, perché i suoi comportamenti lo isoleranno da una parte del suo elettorato che, non tutto, si beve la furia rancorosa del tycoon.
C’è poi chi pensa che il fattore di ponderazione su Biden sia solo e soltanto Barack Obama.
I media hanno bisogno di figure iper-riconoscibili e continuano a candidare una come Michelle Obama che sta con rigore fuori dalla partita.
Io continuo a pensare che, pur con tutte le torsioni che la gente vede e che lo stesso Biden certo percepisce, Joe Biden si continui a vivere come il rappresentante di una soluzione necessaria e quindi possibile. Questo nella linea di una storia evidente e alla luce delle condizioni reali di un paese che sta andando bene con salari e occupazione in crescita (argomento finora non del tutto al centro della campagna).
Tanto che un po’ di tempo fa avevo prefigurato – ma ammetto che la scena era pensata in chiave drammaturgica più che politica – che Biden avrebbe potuto ipotizzare di restare al servizio degli Stati Uniti rovesciando il ticket. Cioè, svolgendo da vicepresidente alcune missioni interne e internazionali alla portata della sua esperienza, con la legittimazione già costruita negli anni a favore di Kamala Harris nel quadro di tutte le sue naturali energie messe nella presidenza. Soluzione naturalmente che cade a terra, nel momento in cui è qualcun’altro e non lo stesso Biden a prospettarla.
In ogni caso, ognuno di noi è, di fronte a storie come questa, un po’ sceneggiatore. Perché la politica non è tutto. Non è un dono sovraumano. Non è l’investitura per la vita eterna (come Silvio Berlusconi qualche volte aveva spiritosamente ipotizzato). E però è un copione spesso costruito con i tempi del thriller, con la suspence di notizie in crescendo, con la discesa in campo di angeli e messaggeri che disegnano una gerarchia dell’annunci. Così, adesso, siamo entrati nella fase in cui i destini degli americani – ma diciamolo chiaramente, un po’ di tutti noi umani del pianeta – devono fare i conti non solo con gli interessi milionari dei donatori della campagna, ma anche con la ratio evolutiva dei libri di storia.
Roma, 13 luglio 2024