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Il rinnovo del Consiglio di Amministrazione della Rai. Una questione costituzionale ed europea di indipendenza

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Governance Rai, una questione costituzionale

Parliamo della governance della Rai. Che da quando esiste l’azienda si è tirata addosso sempre tuoni e fulmini, come sono le realtà “contese”.

Quelle per cui va tutto bene se uno comanda, va tutto male se uno rimane fuori dalla porta.

Attraversando tante epoche, la Rai – a cui lo Stato concede la condizione di “servizio pubblico” con un vero e proprio contratto di missione e che si alimenta per questo con un canone di abbonamento sostenuto dai cittadini potendo tuttavia anche acquisire risorse pubblicitarie (entro un certo tetto) perché non tutto il suo prodotto è concepibile come “servizio” – ha sempre avuto il problema (che appartiene per sua natura al concetto di collocarsi nelle regole della democrazia) di avere un gruppo dirigente – almeno consiglieri di amministrazione e direttore generale (lì si dovrebbe fermare la cosa, ma finisce poi per non fermarsi lì) – espressione del sistema politico eletto dal popolo e quindi rappresentato in Parlamento.

Il passaggio dal Governo al Parlamento stabilito dalla Corte Costituzionale nel 1974 e la Riforma del servizio pubblico del 1975

Non era così dal dopoguerra a metà degli anni Settanta, dato che il vero controllo era esercitato dal quadro di governo.

Negli anni Settanta, insieme a tante turbolenze del periodo, dopo gli scossoni del ’68, ma anche nelle tensioni correnti (terrorismo e trasformazione economica) che mettevano a prova le istituzioni, la Corte Costituzionale pronunciò nel 1974 una famosa sentenza che chiariva che la governance “politica” dell’azienda doveva essere espressa (maggioranze e minoranze) dal Parlamento (sentenza n. 225).

Con un diritto governativo (attraverso l’ente pubblico di appartenenza, che era l’IRI) di esprimere la guida tecnica cioè la direzione generale. Su quell’onda d’urto nel 1975 passò una legge di riforma della Rai che consolidava il principio di dipendenza parlamentare, confermava il pluralismo delle reti, anzi prevedendo una terza rete attenta al decentramento territoriale e molte altre cose.

Dico per inciso che fu nel quadro di avviamento di quella riforma che approdai in Rai nel 1977 – azienda che mi formò come dirigente, in cui fui assistente di due presidenti come Paolo Grassi Sergio Zavoli, e che poi per tre anni mi distaccò come direttore generale all’Istituto Luce, con il compito di rilanciare produttivamente quella azienda di Stato del cinema e di altre produzioni audiovisive che era in declino, trovando anche il modo di creare condizioni di collaborazione tra cinema e televisione.

Otto anni di mio grande apprendimento.

Poi fui chiamato a lavorare alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Rai mi occupai soprattutto per la gestione delle convenzioni tra lo Stato e l’azienda e per questioni di orientamento del concetto di “servizio pubblico”.

La modifica nel 2015 operata dal governo Renzi: un Amministratore Delegato di nuovo sotto l’egida del Governo

L’assetto citato della governance – pregi e difetti, ovviamente – durò a lungo (con la vigilanza di una Commissione parlamentare bicamerale) finché il governo presieduto da Matteo Renzi, lo modificò. Con la riforma del 1975, sei membri erano eletti dal governo e dieci dalla Commissione parlamentare di vigilanza.

Poi questa sagomatura cambiò attraverso vari provvedimenti.

Ma nel 2015 si produce il ribaltone: quattro membri del Consiglio di Amministrazione nominati da Camera e Senato, due dal Governo (tramite il Ministero del Tesoro, poi dell’Economia, quale azionista), e uno dall’assemblea dei dipendenti.

Nella riforma del 1975 era previsto che il Consiglio di Amministrazione stesso nominasse il proprio presidente scegliendolo tra i suoi membri, norma presente anche nella riforma del 1993. Era inoltre previsto che il Consiglio di Amministrazione nominasse un direttore generale. La riforma del 2015 ha sostituito la figura del direttore generale con quella dell’amministratore delegato.

Questa riforma, in sostanza, ha spostato il perno della governance sotto l’egida del Governo.

Vulnus costituzionale, si è detto. Nel senso che è stata contraddetta l’originaria sentenza della Corte (fatta con interpretazione aggiornata dell’art. 21 della Costituzione). Per anni molte proteste ma nessun vero atto politico parlamentare di ulteriore modifica.

Evidentemente le forze al governo hanno pensato di averne un beneficio politico subito. Quelle all’opposizione hanno pensato di avere quel beneficio in caso di cambio di maggioranza. Come si è visto, accusandosi reciprocamente di invasione politica della Rai, a turno.

Nell’ultimo decennio cresce l’influenza politica negativa subita dalla Rai

E così che la Rai ha subito nell’ultimo decennio un ampliamento di negativa influenza politica ben al di là del solo organo di amministrazione. Influenza che è scesa un po’ su tutto (non che prima ci fosse un coro angelico di cherubini, eh…). Si sono prodotti sbandamenti, stratificazioni di raccomandati, perdita di strategie a medio e lungo termine, eccetera. Proprio nel periodo di maggiore trasformazione di sistema in epoca digitale e di globalizzazione dei processi mediatici.

La prova dell’attitudine del Parlamento a dare esecuzione alla riforma si è avuta nel 2018.

Un centinaio di cittadini molti dei quali con esperienze, competenze e curricula adeguati avevano presentato domanda alla Camera e al Senato. Ma siccome l’accordo tra i partiti – tra quelli al Governo e quelli in Parlamento – era concepito in modo rigido e soprattutto fiduciario, quel che contava era che la spartizione dei sei posti di comando in CdA non sfuggisse dallo stretto controllo del negoziato.

Esito: le buste neanche aperte. Non fu formata una commissione di valutazione. Non fu dato un punteggio alle competenze. Non fu fatta una short list per chiamare in audizione i più meritevoli. Niente di niente. Eppure, il bando era stato fatto intitolando “Selezione dei candidati…” eccetera eccetera.

Mi si permetta di ricordare en passant che tra coloro che si espressero pubblicamente con disagio e dissenso per questa prassi ci fui anch’io – che avevo posto, per sfida procedurale, la mia candidatura da indipendente – e se ricordo bene anche il prof. Zagrebelsky, non il costituzionalista (che era il fratello) ma Vladimiro Zagrebelsky, magistrato e anche lui costituzionalista. Figuriamoci i più. Spallucce.

In questi anni alcune associazioni professionali o di indirizzo civico, più alcune (anche se poche) voci anche all’interno dei partiti, hanno posto il problema di rivedere forme e contenuti della questione della governance della Rai. Un ente che sta nella democrazia che non è fatta solo di partiti politici, ma di tante realtà che potrebbero concorrere in modo plurale e positivo alla gestione di una realtà culturale così complessa.

Ma anche qui, diciamo, dibattito per addetti ai lavori. Nei partiti, salvo tentativi individuali di esponenti sensibili, non si è ritenuto di mettere la questione all’ordine del giorno.

L’Europa scende in campo con l’European Media Freedom Act (EMFA)

Come accade spesso, è stata l’Europa a prendere posizione.

Non solo per l’Italia, ma per tutti i paesi europei membri. E non solo per ragioni di principio ma perché la competitività globale anche in campo mediatico è problema di primissimo piano politico ed economico. E dipende dall’uso di criteri moderni circa i saperi e i metodi necessari per mandare avanti enti di quella natura.

Ed ecco che a valle di un percorso serio compiuto dalle istituzioni europee, il 13 marzo del 2024 il Parlamento europeo vota il via libera – oltre all’atto di regolamentazione dell’Intelligenza artificiale –all’European Media Freedom Act (EMFA). Insieme a tante cose previste da questa norma – che entra in forma automatica nella legislazione dei paesi membri, pur assegnando un lasso di tempo per dare adattamento attuativo a tutto ciò che è stabilito – circa ciò di cui stiamo parlando – la nuova regola europea (lo dico con le parole di un articolo scritto da Stefano Balassone)

“alla lottizzazione, subentra la indipendenza e la responsabilità di impresa”.

Chiarendo, tra l’altro bene, le procedure trasparenti di selezione.

In sostanza, no alla dipendenza dei servizi pubblici informativi dai governi. Oltre a regole di autonomia finanziaria dal ricatto politico.

Qui lasciatemi fare una chiosa – per usare una parola grossa – “politologica”.

Non vorrei che si pensasse che questo ragionamento è fatto per una sorta di pregiudizio favorevole al “parlamentarismo”, rispetto alla necessità di “governare” i nostri Paesi.

La linea costituzionale della nostra democrazia è di tipo parlamentare, ci dobbiamo fare i conti, perché ha avuto il suo perché nella storia italiana. E ora non siamo così sciocchi da non capire che il Parlamento che ora abbiamo non è quello dei tempi di Cavour. Ma nemmeno il Governo che ora abbiamo è quello dei tempi di Cavour.

Quindi per evitare giochi di parole e poche convergenze, qui conta che sia stata l’Europa nel suo complesso a giudicare negativo – per gli interessi comuni oggi – mettere i media di servizio pubblico sotto il tallone dei governi. Di qualunque genere, come sono quelli europei: sinistra, centro e destra.

Accettiamo quindi il punto di convergenza che l’Europa ha trovato su un terreno in cui non basta parlare di politica come si fa al bar. Contano i dati del rapporto strutturale tra qualità dell’informazione, qualità dell’innovazione e qualità sociale attorno a cui la riflessione europea è stata lunga e ha preso, alla fine, una strada condivisa.

Perché Infocivica da un quarto di secolo si batte per una reale indipendenza dei servizi pubblici e delle varie autorità di controllo

E soprattutto consideriamo al centro della visione europea il tema della reale indipendenza dei servizi pubblici e delle varie autorità di controllo. Problema generale su cui l’Italia deve dimostrare di essere ben allineata.

E torniamo a noi. Chi segue da vicino la trasformazione regolamentativa che l’Europa sviluppa – a volte senza chiasso e a volte anche (e purtroppo si capisce perché) con poca comunicazione – è apparso subito evidente il rapido necessario processo rifondativo della stessa Rai, non solo circa la governance, ma anche per molte altre regole di adeguato andamento. Ma la scadenza del mandato del consiglio di amministrazione vigente, in un periodo di particolari turbolenze (gestionali, artistiche, culturali, finanziarie) della Rai, ha messo in calendario il famoso “bando di selezione” di cui si è detto prima. Scadenza il 20 aprile 2024.

Una settantina di candidati, alcuni dei quali in forma avulsa da questi nuovi venti; altri credo in forma per lo meno percettiva. Parlo almeno per me, che ho avuto il sostegno alla candidatura dalla associazione che presiedo, cioè Infocivica, fondata nel 2000 da Jader Jacobelli e dall’europeista Bino Olivi per tenere legami stretti tra sviluppi italiani ed europei in campo mediatico e comunicativo. E più di una associazione ha percepito le stesse novità.

Rinnovo CdA Rai: le ragioni del nostro ricorso cautelare e l’ordinanza del Tar

Così che grazie alla sensibilità di un ex-presidente della Rai – e professore di diritto costituzionale – come Roberto Zaccaria e con lui alcuni giuristi esperti e competenti, si è colta la situazione per agire preventivamente immaginando le opportunità di sistema che potevano profilarsi.

È stato dato incarico a un valente legale, l’avvocato Giovanni Pravisani di Firenze, di imbastire un ricorso cautelare (che vuol dire mosso prima che avvenga il “crimine”, permettetemi la semplificazione) all’unico organo possibile, il Tar del Lazio. Non essendo possibile adire in questa forma la Corte Costituzionale, ma potendosi innescare un processo teso a finire appunto alla Corte Costituzionale e, nelle vie intermedie, al Consiglio di Stato.

Un ricorso chiede “ricorrenti”, cioè aventi diritto a ricorrere, che riconoscono che la partita trascende le loro persone ma, ove inneschi una svolta legittimata può aiutare in un delicato e necessario quadro di riforme.

È stato quindi il caso mio e dei colleghi Nino Rizzo Nervo, Patrizio Rossano e Giulio Enea Vigevani, ciascuno sostenuto da associazioni professionali a cui ho fatto riferimento, che hanno presentato argomentazioni in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati, introdotta da Roberto Zaccaria, il 2 maggio 2024. Informando, cioè, dell’avvenuto ricorso al Tribunale regionale amministrativo del Lazio.

Anche se è difficile fare breccia nei media e nell’opinione pubblica quando le questioni non presentano un morto ammazzato, la rapina del secolo, la clamorosa corruzione o la sconfitta della nazionale di calcio, tuttavia si è allargata l’attenzione e si è creata una rete interessata al percorso che si stava aprendo.

Ho avuto l’onore di una conversazione con il professor Enzo Cheli, già vicepresidente della Corte costituzionale, già presidente dell’Agcom, già membro del Consiglio di Amministrazione della Rai e giurista insigne a Firenze, che ha consolidato molte argomentazioni, basi di appoggio e visione del tema.

Intanto voci importanti sono entrate in campo per introdurre l’altro argomento, quello del senso “politico” di nomine parlamentari, certamente fatte dal Parlamento, che però non devono scegliere solo tra i fiduciari dei partiti ma dentro il pluralismo anche civico delle candidature presentate.

Argomento, questo, di etica pubblica non da poco in questo periodo di astensione al 50 per cento in Italia.

Tutti in attesa, dunque, della ordinanza del TAR prevista per fine maggio. Temendo alcuni un giudizio di infondatezza (causa la delicatezza di doversi pronunciare su procedure parlamentari), altri una indisponibilità di merito, altri anche più fiduciosi, quando le cause partono da argomenti ben trattati e saggiamente esposti.

E così è arrivata l’ordinanza. Datata 30 maggio 2024.

Che non rigetta il ricorso per infondatezza.

Che non fa mistero di segnalare l’importanza della questione sollevata.

Che prende un po’ di tempo per aggiornare il suo stesso punto di vista nel merito, fissando ad ottobre l’udienza.

Apprezzamento e qualche preoccupazione di avvocati e giuristi perché, dopo le elezioni europee il nostro Parlamento certamente potrebbe prendere atto di tutto questo e compiere scelte di responsabilità, anche verso la forma dell’Italia di trattare norme così rilevanti messe in campo dall’Europa, proprio nel momento in cui i paesi membri dell’Unione europea devono misurarsi sulle loro nomine e i loro assetti a Bruxelles.

Oppure – e non sarebbe la prima volta – i capigruppo in Parlamento potrebbero mettersi una benda sugli occhi e tirar dritto sui miopi interessi di una procedura e una finalità, che poi finirebbero per trasformare in illegittimo l’organo nominato in barba a tutto ciò che qui si è detto.

Questa è la ragione per cui avverto la doverosità di una certa divulgazione su fatti e antefatti, auspicando una iniziativa pubblica di esperti a breve, perché solo con forme di controllo sociale le istituzioni in qualunque democrazia ci mettono più sforzo ad esaminare le cose, quando ci sono interessi in gioco. Ma – e questo è il caso – qui ci sono anche interessi superiori tanto che la parola “indipendenza” va dimostrata.

1° giugno 2024

Stefano Rolando
Stefano Rolando
Insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio.

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