Quando se ne vanno, se se ne vanno, a volte non ritornano. Donald Trump, il magnate presidente, non ha mai passato tanto tempo alla Casa Bianca come nel mese dopo che ha perso le elezioni. La Cnn cita una “sindrome da bunker” che si sarebbe impadronita di The Donald da quando Joe Biden è presidente eletto. Ha addirittura programmato a Washington la festa del Ringraziamento, che, invece, dal 2017 aveva sempre trascorso a Mar-a-Lago in Florida.
Asserragliato nel suo fortino, Trump ha ostinatamente continuato a giocare a ‘The Apprentice’, licenziando a raffica consiglieri e collaboratori che non gli erano stati, a suo giudizio, abbastanza fedeli o che avevano il torto di dirgli la verità. Il rancoroso tramonto d’una presidenza divisiva, che lascia l’Unione spaccata, ha accelerato ipotesi e considerazioni sul futuro del partito repubblicano.
Ci si interroga se sarà con o senza Trump, se ci sarà un Trump in corsa nel 2024, se sarà ancora lui, il magnate, o se toccherà a Ivanka, figlia e consigliere, magari in tandem con il marito Jared Kushner, tanto per sfidare la legge della prima volta – la prima volta di una donna, di una figlia di presidente, di una coppia nel ticket -.
In questa ipotesi, Trump, che ha piegato alla sua linea gran parte di senatori e deputati, continuerà ad esercitare influenza nel partito, pur senza avere più incarichi, preparando il terreno per il ‘come back’ nel 2024 o per l’entrata in scena di Ivanka. E altri Trump, acquisiti o quasi, manifestano ambizioni politiche: c’è la fidanzata del figlio maggiore Donald jr, Kimberly Guilfoyle, entrata nelle cronache della Convention repubblicana dell’agosto scorso per un suo intervento tutto urlato; e c’è Lara, la nuora, moglie di Eric, il terzogenito, che valuta se candidarsi al Senato nel 2022 in North Carolina, dove è nata. Ex trainer personale ed ex produttrice televisiva per ‘Inside Edition’, Lara è una forte sostenitrice del presidente e la sua candidatura potrebbe essere un test sulla tenuta in politica dell’effetto Trump.
Ma c’è chi ritiene difficile che Trump mantenga il controllo del partito: che ne sia capace e/o che lo voglio. Mary Trump, scrittrice e psicologa, autrice di un libro al vetriolo sui Trump, nipote in rotta con lo zio e con la famiglia pure per questioni d’eredità, dice che The Donald non si ricandiderà perché non vuole trovarsi a rischio di perdere di nuovo: se lo ipotizza con il suo entourage, lo fa solo per il suo ego. Senza contare che nei prossimi anni potrebbero insorgersi impedimenti da fattori come la salute, l’età e le questioni giudiziarie aperte, che sono molte e che senza immunità possono finire male.
Su un piano meno personale e familiare, sul Washington Post, John Bolton, ambasciatore ed ex consigliere per la Sicurezza nazionale, anch’egli autore d’un libro imbarazzante per il magnate, scrive: “Il tempo sta per scadere per Donald Trump e per i repubblicani che lo coccolano”. Secondo Bolton, “il partito repubblicano non ha ancora sofferto danni irreparabili alle sue integrità e reputazione” malgrado le “furie” post-elettorali del presidente uscente, ma “questo non durerà molto a lungo”. In un op-ed, Bolton indica “la fredda realtà politica”: Trump sta “rafforzando il suo brand (almeno nella sua testa), ma intanto danneggia il brand del Gop. Il partito ha bisogno di una lunga conversazione interna sull’era post-Trump, ma prima bisogna arrivarci onorevolmente”.
Senza andare alle ipotesi da Cassandra di Mary, morte, malattie, condanne, c’è la possibilità che The Donald, che non è un mostro di costanza, si stufi di giocare alla politica senza avere un potere da esercitare e si dedichi ad altro, magari fiaccato – o rigenerato? – da sviluppi familiari (è insistita la previsione di un divorzio addirittura imminente, appena lasciata la Casa Bianca, con Melania, moglie trofeo che vorrebbe piantarlo portando con sé un bel gruzzolo e il figlio più piccolo Baron).
Gli aspiranti alla nomination repubblicana a Usa 2024 già cercano posto ai nastri di partenza. Ci sono i ‘trumpiani’, come Ivanka o il senatore dell’Arkansas Tom Cotton – l’Arkansas è uno Stato da cui s’arriva alla Casa Bianca, come ha già dimostrato Bill Clinton, che ne fu governatore -. E ci sono i ‘trumpiani’ che hanno già avviato da tempo un processo di decantamento, come Nikki Haley, ex governatrice della South Carolina, poi rappresentante degli Usa all’Onu per nomina del magnate, ma sfilatasi a metà mandato, brava, bella, preparata, ancora giovane – 48 anni -, origini indiane come la vice-presidente eletta Kamala Harris. E ci sono i cavalli di ritorno, come i senatori che furono in corsa nel 2016 e che sono rimasti nella riserva, Ted Cruz (Texas), Marco Rubio (Florida) e, magari, Lindsey Graham (South Carolina), un po’ tanto ‘trumpiano’, ma pure ‘amico’ di Biden. Nessuno di questi ha interesse che Trump resti immanente al partito.
E neppure il partito ce l’ha. Il’ trumpismo’ ha portato una presidenza e, nell’Election Day 2020, oltre 73 milioni e mezzo di voti, più di quanti ne abbia mai ottenuti un candidato repubblicano, che abbia vinto o perso. Ma non ha tirato il partito fuori dalla minoranza nell’Unione: dal 1992 a oggi, in otto successive elezioni presidenziali, i repubblicani sono stati maggioranza una sola volta – fu nel 2004 -, pur avendo ottenuto la presidenza tre volte. E molti dei voti di Trump, suprematisti o apertamente razzisti, escono dall’alveo tradizionale dei conservatori statunitensi, che possono fare coalizione con i fondamentalisti cristiani e con gli anti-governo tipo Tea Party, ma che hanno un’identità e una rispettabilità confuse e appannate dall’esperienza ‘trumpiana’. In quattro anni, possono essere tirate di nuovo a lucido, aggiornate e rivitalizzate.