In Iraq ormai divenuto terra di scontro tra Usa e Iran – meno rischi qui che nello stretto di Hormuz, devono avere spiegato a Donald Trump -, piovono missili su basi utilizzate dalle truppe occidentali (prodromo all’ennesima ritorsione). Ma Baghdad può almeno sperare in un nuovo premier: dopo oltre cento giorni di vuoto istituzionale, il presidente della Repubblica Barham Salih ha ieri dato l’incarico di formare un esecutivo ad Adnan Zurfi, un politico sciita, ma non filo-iraniano.
Adesso, per Zurfi inizia, però, un delicato negoziato. Il suo predecessore come premier incaricato, Muhammad Allawi aveva rimesso l’incarico a inizio marzo, dopo un mese d’infruttuose trattative per di formare un governo. Anche Zurfi ha trenta giorni di tempo per presentarsi in Parlamento e ottenere la fiducia sul programma e i ministri.
La trattativa interseca, come sempre in Iran, piani diversi: quello politico è forse il meno rilevante, rispetto a quello etnico-religioso –(sciiti, la maggioranza, sunniti, un terzo circa, e curdi) e a quello della collocazione internazionale, più o meno pro-iraniano o pro-americano.
Le scaramucce militari continueranno molto probabilmente a fare da rumore di fondo ai negoziati: ieri, razzi sono stati lanciati contro la base di Basmaya, 60 km a sud della capitale, che ospita parte del contingente spagnolo della Nato e della coalizione internazionale anti-Isis – l’esercito iracheno non riferisce di vittime -; e sabato tiri di artiglieria avevano di nuovo centrato la base di Taji, a nord di Baghdad, dove stazionano militari americani e britannici – lì ci sarebbero stati almeno tre feriti, s’ignora se militari o civili -.
Proprio un attacco letale contro la base di Taji aveva innescato, la scorsa settimana, una ritorsione, pure sanguinosa, contro milizie filo-iraniane in territorio iracheno e loro depositi di armamenti. Negli ultimi 150 giorni, in coincidenza con la crisi socio-istituzionale dell’Iraq, ci sono state oltre venti azioni ostili lanciate contro le truppe stranieri presenti sul territorio iracheno. A inizio gennaio, dopo l’uccisione del generale iraniano Qasim Soleimani, colpito a Baghdad da un drone americano, il Parlamento iracheno, dove gli sciiti sono in maggioranza, aveva sollecitato il governo a chiedere il ritiro dal Paese delle forze straniere – l’esecutivo in carica per gli affari correnti non lo ha fatto -.
Lo scontro tra Usa e Iran ha come teatro un Paese attraversato da profonde tensioni sociali, la cui repressione, dall’autunno scorso, ha già fatto almeno 550 vittime. Il premier uscente, Adel Abdel Mahdi, s’era dimesso a fine novembre, spinto a farlo dalle manifestazioni popolari ‘anti – caro vita’ caratterizzate da sentimenti ostili all’influenza iraniana. Ai motivi di scontento s’è ora aggiunta l’emergenza coronavirus: ufficialmente, 124 casi registrati, 8 decessi, numeri ben poco attendibili.
Lunedì, i sette principali gruppi parlamentari sciiti avevano informato il presidente Salih che non erano d’accordo sul nome del premier incaricato. Il capo dello Stato ha allora esercitato i suoi poteri scegliendo, Zurfi, 54 anni, deputato del partito sciita Dawa, originario di Kufa, nel sud del Paese, roccaforte sciita.
Sotto Saddam Hussein, Zurfi era stato giovanissimo prigioniero politico nel carcere di Abu Ghreib, quello degli orrori americani sui prigionieri sunniti dopo l’invasione del 2003. Ed era poi andato esule in Arabia Saudita e negli Stati Uniti. Tornato in patria nel 2003, ha avuto diversi incarichi amministrativi e governativi ed è stato due volte governatore della regione di Najaf, dove ha c’è uno dei santuari sciiti più importanti del Medio Oriente.