Mi è stato chiesto di aggiornare – con i dati più recenti – la lunga e un po’ solitaria battaglia affinché la politica riprenda ad analizzare e a fronteggiare la crescente patologia dell’astensionismo, ormai in Italia andata o oltre la soglia (che dovrebbe essere limite insuperabile) della maggioranza dei cittadini aventi diritto al voto. Insieme a un sommario complessivamente molto interessante, questo è il testo pubblicato nel fascicolo uscito a dicembre.
Perché il tema è ai margini del dibattito pubblico?
Lo spartiacque del “perché e come affrontare la questione” non è recentissimo. Ha quasi vent’anni la sentenza n. 73 del 2005 della Corte Costituzionale in cui (in relazione al caso sollevato del “non voto” dei friulani all’estero) stabilì che l’astensione – per dirla in poche parole – attiene a un quadro di diritti (complessità di valutazioni oggettive e soggettive a fronte dell’esercizio esplicito di un supremo diritto democratico) e non a una lesione al principio costituzionale di “dovere civico”.
In realtà è stato ricordato che alla Costituente il tema era stato dibattuto e che, tra chi propendeva per un obbligo giuridico e chi propendeva per un obbligo morale, il costituente scelse l’espressione attenuata di “dovere civico”. Il legislatore, in seguito, non ha mai ripreso il concetto di obbligo giuridico fino ad abrogare un articolo di legge che prevedeva sanzioni. E pertanto è invalsa una interpretazione di ammissibilità attorno a cui la Corte – a fronte di un conflitto interpretativo, nato in occasione delle elezioni regionali in Friuli-Venezia Giulia – ha messo in campo un inquadramento definitivo. Cito qui il passaggio di uno studio, Giuseppe Passaniti, professore all’’Università di Siena, che spiega il rilievo e la caratteristica di questa sentenza.
“La Corte Costituzionale nella sentenza 173 del 2005, considerate le posizioni antitetiche assunte dalle parti sul significato da attribuire all’espressione “dovere civico”, ha abbracciato una posizione “mediana”. I giudici della Corte, affermando che l’astensione nel voto è diversa dalla mancata partecipazione al voto, hanno sostenuto che in rapporto all’articolo 48 Cost., il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante, ma solo sul piano sociopolitico. In altre parole, la Corte non ha considerato l’astensione né una violazione di un preciso dovere costituzionale come aveva sostenuto la difesa della Regione Friuli-Venezia Giulia, né tanto meno una manifestazione della volontà politica in quanto le ha attribuito rilevanza solo sul piano sociopolitico”.
Da qui in poi ci si sarebbe aspettato un fiorire di analisi, valutazioni, discussioni non solo in sede tecnico-giuridica ma anche in sede politico-istituzionale con coinvolgimento frequente dell’opinione pubblica per portare in evidenza la complessità e quindi l’articolazione di tutte le motivazioni del “non voto”. Così da permettere una chiara distinzione tra motivazioni tecniche e motivazioni valutative e ragionare in sede politico-legislativa sul modo di affrontare, contenere e in qualche caso risolvere i fattori maggiormente determinanti.
Qualcosa c’è stato, studi soprattutto in ambito universitario sono affiorati. Ma in buona sostanza in questi venti anni che ci separano da quella sentenza sono accadute, almeno in Italia, alcune cose chiare e di crescente peso.
1. L’incidenza dei numeri.
- L’astensione è aumentata in tutte le consultazioni elettorali e con una impennata che va, alle elezioni politiche, dal 16,38 per cento del 2006 al 36,09 per cento del 2022 e dal 26,61 per cento del 2004 al 50,31 per cento del 2024 alle elezioni europee (con la maglia nera alla circoscrizione Meridionale e Insulare che va oltre la soglia negativa dei votanti).
- Le ultime elezioni territoriali importanti (le regionali in Liguria) hanno manifestato questa tendenza confermando che il “non voto” è maggioranza netta tra gli elettori (l’affluenza essendo stata alle elezioni del 27 e 28 ottobre del 45,96 per cento mentre alle elezioni regionali del 2020 era stata del 53,42 per cento). L’ultimissimo dato dell’Emilia-Romagna peggiora il quadro che, per la tipologia e la tradizione di quella regione, assume carattere di “epocalità”: 53,58 per cento di astenuti (in Umbria – nel quadro di un dichiarato “testa a testa” – gli astenuti sono stati del 47,70 per cento).
- La tornata amministrativa locale parallela alle elezioni europee, non su tutto il territorio nazionale, ha avuto un esito di “contenimento” al 37,4 per cento.
- I paesi europei – salvo i casi di tenuta sostanziale di Belgio, Danimarca, Lussemburgo e Svezia – esprimono una crescita dell’astensione (dal dopoguerra a oggi) che va dal 20 per cento al 30 per cento, collocando quindi l’Italia in una condizione tra le più accentuate e critiche del sistema europeo.
2. L’emergere di analisi sulle tipologie delle cause.
Cosa che ha portato (e che porta) una base razionale all’attenzione di confronti e decisioni. Tra il 2022 e il 2023 chi qui scrive ha realizzato – nell’ambito dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica dell’Università IULM di Milano – un dossier[1] in cui si cerca di dipanare (con la documentazione dei principali interventi al dibattito in quella fase, la tabella che riduce a maggior sintesi le cause:
Ad un primo esame appaiono almeno fenomeni diversi:
- un astensionismo tecnico-elettorale: causato da problemi organizzativi, logistici e di regolarità dei documenti necessari a votare; tra cui emerge il problema dei “fuori sede”;
- un astensionismo fisiologico: causato da motivi personali legati alla salute dell’avente diritto al voto che sceglie di non votare per motivi personali;
- un astensionismo di non integrazione, determinato dalla normativa sulla cittadinanza che riguarda giovani possibili votanti nati in Italia ma non legittimati;
- un astensionismo per sfiducia e protesta: causato da mancata fiducia nella politica, nel potere decisionale del singolo, nel non vedere risolte dagli eletti questioni considerate rilevanti.
Risulta evidente che la quarta motivazione costituisce il contenitore più complesso dal punto di vista sociopolitico a sua volta organizzabile con molte varianti che si riferiscono alla dinamica di domanda e offerta di politica e alla percezione pubblica di rendimento sociale della politica stessa.
3. Le risposte di sistema da parte dei governi della Repubblica.
In ordine a quello che sembrerebbe un ovvio e naturale comportamento delle istituzioni, si registra – nel periodo che prendiamo in considerazione (chiamiamolo “seconda Repubblica”) – una sola iniziativa di fronteggiamento dichiarato ed esplicito, per iniziativa del Governo Draghi e della commissione attivata il 22 dicembre 2021 con decreto del Ministro dei Rapporti con il Parlamento con delega alle riforme istituzionali Federico D’Incà attraverso una commissione di esperti con compiti di studio ed elaborazione di proposte, anche di carattere normativo per “iniziative idonee a favorire la partecipazione dei cittadini al voto” (presieduta da Franco Bassanini) che il 14 aprile 2022 ha presentato la relazione dal titolo Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto.
Le valutazioni fatte al tempo riguardanti le misure di soluzione o contenimento delle cause tecniche (soprattutto la 1 e la 3 della tabella accennata) erano state di promuovere una riduzione dell’astensione dal 10 al 20 per cento del fenomeno, ove rapidamente e adeguatamente varate con provvedimenti normativi. Il pacchetto delle proposte è naufragato a fine legislatura e non è più stato ripreso dal Parlamento per mancanza di volontà e di determinazione di tutti i gruppi politici.
In sostanza, i partiti politici italiani hanno confermato di non voler aprire una “vertenza sociale” sul fenomeno. Che così avrebbe spinto per portare in evidenza dell’agenda politica il tema, creando così anche ridondanze mediatiche per indurre consapevolezza e partecipazione. Hanno lasciato il merito della attivazione, pur se sterile, ad un governo cosiddetto “tecnico”, che tuttavia ha mostrato di lavorare anche come “pronto soccorso” di una crisi dei partiti politici, portando un contributo a sanare almeno una parte del processo di disaffezione.
Tutto al condizionale perché lo sforzo è rimasto nei cassetti.
Un’opinione esperta
Riporto qui alcuni elementi di uno studio ed esperto operatore, come Alessandro Amadori, che è stato sollecitato su questi argomenti da una mia recente tesista, Melissa Manzi, che ha dedicato il suo elaborato di fine percorso al tema dell’astensionismo in Italia. Amadori è docente all’Università Cattolica di Milano, con competenze demoscopiche e di comunicazione strategica nell’ambito politico.
Nella conversazione sono contenute varie argomentazioni da cui traggo brevi spunti di analisi e del “cosa fare”.
Il voto tradizionalmente si divide su tre meccanismi:
- il voto di appartenenza, ovvero mi identifico in un’ideologia, in una visione, in un sistema di pensiero;
- il voto di opinione, quindi non ho una ideologia di riferimento ma voto volta per volta sulla base di pensieri e programmi (ad esempio credo nei diritti individuali e civili e quindi voto il PD perché porta avanti meglio questa politica);
- il voto di scambio, dove per scambio si intende voto perché mi conviene farlo nel senso che ne traggo un vantaggio, per “opportunismo”.
Perché c’è astensione? Un suggerimento ai partiti che hanno subito questo processo
La partecipazione si crea anche attraverso i partiti, ma i partiti praticamente non ci sono più sul territorio quindi per conseguenza logica del sillogismo c’è meno partecipazione. In più sono anche strutture meno democratiche di quanto potrebbero essere e quindi anche questo frena l’adesione ai partiti, la quale a sua volta rende più difficile motivare la partecipazione al voto.
Se si dovesse inventare un nuovo partito consiglierei di partire dal territorio e di uscire dall’illusione che si fa tutto con i social media. I social media sono importanti ma sono una componente complementare.
Il futuro della politica è fatto di passato e futuro. Il passato è il ritorno al territorio, a fare apostolato, a stare in mezzo alla gente, a girare per i quartieri, a fare attivismo, fisicità, camminare per strada, andare alla stazione Termini di notte per vedere com’è, andare al quartiere Gratosoglio di Milano… invece di vedere solo conferenze di persone che raccontano come fare marketing che non aiuta a capire realmente la società. Quindi è stare fra la gente, tornare al passato all’antico, al contatto fisico, alla parola, al dialogo, all’ascolto. Questo devono fare i partiti.
I partiti in quanto espressione della società a loro volta hanno subito questo processo. I partiti sono in qualche modo una proiezione della società. L’individualismo, una minore voglia di stare in corpi intermedi, il frazionamento sociale, la distruzione dei tessuti comunitari che sono tutte cose dell’occidente, hanno avuto riflessi anche sui partiti. I partiti hanno riprodotto alcune delle dinamiche che sono dei trend macro-sociali.
Le questioni di “qualità democratica” che si pongono
Il fenomeno e le sue reazioni qui sintetizzate e anche più sopra commentate hanno in realtà consolidato il modo con cui politica e media (con alcune eccezioni, da una parte e dall’altra) hanno derubricato una dinamica che ha avuto – e che ha – diffusione internazionale, sia pure con evidenza fisiologica oppure patologica, rispetto a cui si sono scontrate due opposte letture.
Fin dalla fine del Novecento ha preso piede (allora negli Stati Uniti, per voce soprattutto dei repubblicani) la definizione “la democrazia è chi c’è”. Tesa a limitarsi alla presa d’atto dell’espressione di voto dando conto di risultati e percentuali in rapporto all’adempimento di voto, non al complesso degli elettori aventi diritto.
Tesi che aveva – come ancora flebilmente ha – la sua evidente opposizione che, data la natura articolata delle motivazioni del non voto e data la legittimità costituzionale di questo atteggiamento, si potrebbe esprimere con l’idea che la democrazia è garantire a tutti condizioni partecipative piene assumendosi le istituzioni il diritto/dovere di comprendere la “non partecipazione intenzionale” come un segmento legittimo della “domanda”.
Il cinico realismo di “chi c’è”
Lo sviluppo di questa antinomia non è più stato un fattore differenziante tra destra e sinistra.
I partiti e la società sono andati ciascuno per la sua strada. La società dividendosi tra votanti e non votanti, i partiti unendosi nella convenzione che ha assunto come base non soggetta a diatribe la formula del “cinico realismo”.
Per cui la premier Giorgia Meloni avendo avuto il suo partito di maggioranza relativa il 15 per cento (all’incirca) del voto degli italiani aventi diritto, afferma di essere la maggioranza di una maggioranza che esprime il “chi c’è” come un valore ufficiale. Identica postura hanno avuto i governi Conte della precedente XVIII legislatura, con la stessa “narrativa” post-elettorale tanto dei Leghisti quanto del PD e del M5S. A loro volta in analogia con i predecessori. Così da dimostrare che la visione è ormai condivisa tanto da forze di governo quanto da forze di opposizione (che almeno avrebbero qui una fonte di iniziativa parlamentare e legislativa tesa a promuovere argomenti contro disuguaglianze e discriminazioni).
L’incidenza di demagogia e populismo in tutti gli ambiti della politica come cifra di un pressapochismo di sistema
Il rischio evidente a tutti i partiti è che sdoganare un voto inespresso per cause tecniche comporterebbe il costo della rimozione dei fattori di impedimento, vincolando spesa pubblica in materia ben più vasta dell’incidenza del non voto (trasporti, logistica, dislocazione del lavoro, normativa sanitaria, eccetera). Mentre il farsi carico delle motivazioni “qualitative” (disaffezione, opposizione di principio, irriconoscibilità della corrispondenza alla domanda e ai bisogni, eccetera) è materia connessa a una riforma complessiva della politica che non è più riuscita dopo la crisi radicale della “prima Repubblica” con soluzioni che si sono costantemente misurate con l’incidenza di demagogia e populismo in tutti gli ambiti della politica espressa, mescolando posizionamento e promessa in una vaghezza (ideologica, teorica, di controllo e di valutazione) che è diventata la cifra del pressapochismo di sistema che preferisce nascondere la patologia non essendo più disponibile alla cura (si prenda, ad esempio, l’argomento indicato da Amadori sulla natura integrata tra partiti e territorio). Questo spiega che gli esiti dell’astensionismo siano emarginati dal computo ufficiale e cacciati nelle note delle tabelle degli esiti. Spiega meno che il fenomeno sia assecondato anche dal grosso del sistema mediatico che solo nei casi più clamorosi (cioè di creazione di maggioranze assolute di astensione) asseconda il fenomeno togliendolo dai “titoli”. Nel corso delle elezioni del 2022 il solo “civismo politico organizzato” ha posto il tema al centro della sua riflessione e come condizione di una nuova forma di alleanza riparatrice che, tuttavia, non essendo quel civismo in grado ancora di superare la soglia del localismo questo spunto non ha avuto la forza di bypassare lo sbarramento del puro enunciato senza lasciare traccia nel confronto delle urne.
Conclusioni: dai processi reali che determinavano l’agire politico al “tanto peggio tanto meglio”
Qualcuno potrebbe obiettare che la verve polemica, il rialzo costante della temperatura delle narrative, la tensione aggressiva della politica come se si fosse sempre e comunque in performance elettorale, costituiscono il modo “moderno” (cioè sintonico con la crescita delle superfici digitali di proposta e discussione politica, al posto del “pacato svolgimento” televisivo o al posto del “minoritario” riscaldamento di piazza di un tempo) di accogliere sentimenti di disaffezione, di critica alla gestione politico-amministrativa, di delusione e di disprezzo. Ecco un caso di manipolazione. Come se concedere alla forma della comunicazione politica la sostanza dell’agire politico fosse la giusta lettura di questa invece evidente trasfigurazione dei compiti della politica come rappresentanza difficile, elaborativa, creativa, socialmente protesa di un dovere di rappresentanza che comporta valore aggiunto, non sfruttamento di clima emotivo.
Ma un tempo erano i processi reali a determinare l’agire politico, mentre oggi si parla – universalmente – di governo delle paure e dei rancori individuali sotto forma di amplificazione retorica. Così si “governano” le criticità: migrazioni, clima, disoccupazione, criminalità, violazione di diritti, eccetera. Che senso avrebbe fare eccezione per le cause di “disaffezione” senza poi pensare realmente di mettere nella gestione di quelle cause tutta la riorganizzazione degli strumenti di correzione e riforma che le minoranze riformatrici hanno sempre contrapposto alla conservazione dello status quo o al rivoluzionarismo massimalista pago di annunciare un roseo futuro da ottenere grazie allo sfruttamento del “tanto peggio tanto meglio”.
Oggi il “tanto peggio tanto meglio” prende il sopravvento in un Occidente che si va dichiarando disposto a mettere in liquidazione la sostanza delle sue conquiste democratiche per non avere più né la voglia né la capacità di una robusta manutenzione della democrazia e quindi di un sostenibile investimento nelle riforme necessarie per curare le malattie. Se si prendono i risultati dello scontro epocale di queste ultime elezioni negli Stati Uniti d’America– scontro, tra l’altro, anche attorno a questo paradigma di fondo del declino della democrazia – non è difficile avere delle controprove. Si vada in rete a cercare con chiarezza ed evidenza la traccia dell’astensione nel voto che ha portato al successo di Donald Trump e alla sconfitta di Kamala Harris. Si faticherà ad avere conto di questo dato e sarà impossibile trovare commenti sulle ragioni di una dissociazione dal voto che non varca la soglia della maggioranza ma non è neppure invisibile. Ha votato il 58 per cento dell’elettorato e si è astenuto, pertanto, il 42 per cento degli aventi diritto (il sistema americano era attestato nella recente tradizione sul 35 per cento). Dovremo aspettare le riviste universitarie di scienze politiche per avere analisi sulle motivazioni di questa aggregazione di comportamenti. Esse non ci sono nei commenti politici, sono marginali tra gli opinionisti dei media. L’assuefazione è compiuta.
15 dicembre 2024
[1] Dossier Astensionismo 2022 con estensione al 2023 consultabile in rete, Cfr. https://stefanorolando.it/?p=6604.