Dire romanzo non basta e non è la parola giusta, perché qui c’è del romanzo, del saggio, del diario di bordo di una nave che affonda e, forse, del manuale di qualche disumana disciplina umanistica ancora senza nome.
Mettete in conto che le prime due pagine potrebbero non piacervi – le grandi opere sono così, mal introdotte, perché sentono il peso di tutta quella potenza incontrollabile che arriva subito dopo. Ma poi è tutta discesa, ché l’autore vi porta dentro gli abissi dell’uomo, della guerra, della morte, delle cose peggiori che la storia d’inizio secolo è riuscita a mettere insieme – quanto simile è quell’inizio secolo rispetto al nostro, che è solo più veloce, più ignorante, più dominatore, più violento, più ignobile, più incontrollabile eppure apparentemente più affascinante, più sedativo, più amico dell’uomo.
Nel Voyage, il fondo della notte è il punto più profondo della paura, della viltà, della sconcezza, della vergogna. È un brevissimo intervallo di tempo prima della morte. Partecipare alle visioni di Louis-Ferdinand Céline è entrare con un bisturi nei tessuti dei poveri, dei soldati, degli operai, dei malati e, come vi muovete, vedrete qualcosa di carnoso, di sanguigno, di orribile, eppure di vivo. E quel qualcosa è il piccolo uomo Bardamu e, un po’ più indietro, gli altri personaggi: numerosi, passeggeri, scolpiti nitidamente con quattro parole cardinali, eppure indistinguibili in quanto rappresentanti di quella cosa ridicola e pericolosissima che è il genere umano.
La storia è raggrumata attorno ai tre periodi della vita del protagonista: la Prima guerra mondiale (e il suo carico di morte e di orrore), l’emigrazione negli Stati Uniti (e l’insieme di solitudine e di amore che ne deriverà), il ritorno in Francia (e la sensazione di inutilità e di smarrimento). Momenti storici diversi, luoghi lontani, ma descritti con lo stesso punto di vista lucido, magro, crudissimo. In fondo al quale, è la piccolezza dell’uomo rispetto a qualsiasi ideale e finzione.
Mi sono chiesto, alla fine del libro, com’è possibile che sia scoppiata la Seconda guerra mondiale, dopo che Céline aveva descritto la prima. Non legge romanzi chi prende le decisioni? Chi sono i suoi consiglieri? Quali pagine hanno davanti agli occhi, la sera, prima di addormentarsi? La risposta deve perdere in idealismo e guadagnare in realismo, in avidità, in ferocia, altrimenti sarà una risposta sbagliata. Altrimenti, avremo solo la conferma che solo le élite – quelle per cui la guerra è fonte di fatturato – muoiono di vecchiaia, mentre il resto del genere umano muore di ignoranza.
La conclusione è che non abbiamo speranza, che non possiamo imparare, che a scandalizzarsi per i fanatici di qualcosa sono sempre i fanatici di qualcos’altro, che il potere è invisibile e che il momento in cui avete perduto è quello in cui avete pensato di aver capito.
Questo libro ha una importante controindicazione: dopo averlo letto, ogni altra cosa che terrete in mano vi sembrerà tiepidina, rinunciabile, forzata. Perché le mancherà la vita aspra, reale, senza compromessi che c’è dietro e dentro queste pagine. Non si può non leggere Viaggio al termine della notte e, per una volta, non mi sento di dire che “è questione di gusti”. È grande e fa male. Punto. Leggerlo è come fare una gastroscopia al proprio intelletto, al proprio sistema di credenze, al proprio concetto di coraggio.
Citatissimo da ogni disperato con devianze artistiche che si rispetti, Louis-Ferdinand Céline ha ispirato autori come Charles Bukowski, Giorgio Gaber, Philippe Muray, Vinicio Capossela, Paolo Sorrentino, tanto per nominare gli ultimi arrivati. È una sorta di bibbia laica occidentale non autorizzata, scritta in volgare. E, per chi riuscirà a mettersi nei poveri panni di Bardamu, sarà un sangue nero il cui gruppo è ignoto e che sbuccia le vene dall’interno.