HomeDemocrazia FuturaAstensione. Davvero la democrazia è “chi c’è”?

Astensione. Davvero la democrazia è “chi c’è”?

Dopo il riconoscimento della sua legittimità da parte della Corte Costituzionale

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Per qualcuno sarà una provocazione, ma il riconoscimento della Corte Costituzionale della legittimità dell’astensione elettorale apre un serio problema di analisi e discussione. Dunque, fare i conti con le percentuali dei voti espressi – contando dunque, nelle scelte, gli astenuti – apre gli occhi sul consenso e il dissenso reale dei cittadini. Apre a riesaminare cause e motivazioni. Apre a considerare senza retorica la qualità della nostra democrazia. Oggi questa è una grande sfida civica.

Più volte ho dedicato attenzione al tema della curva crescente dell’astensionismo in Italia. A più riprese se ne è occupato anche l’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, di cui sono responsabile in Università IULM a Milano, che già tra agosto e settembre del 2022 produsse un dossier di analisi e problematizzazione del fenomeno (”Sfida per la democrazia futura”) che stava sotto la soglia della maggioranza assoluta.

Oltre il Rubicone

Ora, con le elezioni europee del 9 giugno 2024, si è passati il Rubicone, siamo al 51 per cento di media italiana. Possiamo dire che la maggioranza degli italiani (ma la tendenza è generalizzata in Europa, sia pure con differenze ancora sensibili) per svariate ragioni opta per il non voto.

In quella espressione – “svariate ragioni” – sta il cuore del problema. Che tolti alcuni ambiti di ricerca, poco ascoltati, non è materia entrata davvero nel dibattito pubblico e soprattutto politico. Il tema resta a margine delle tabelle dei risultati (corpo 8 come fosse un’appendice burocratica) e resta fuori dalla discussione dei partiti politici, erosi in modo crescente, a partire dal 1976, non da oggi, ben inteso. Ma che nel loro complesso hanno adottato e confermato un vecchio argomento della destra americana di fine secolo scorso:

“la democrazia è chi c’è”.

Se partiamo dal nostro assunto costituzionale secondo cui

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”

a proposito la parola Paese è parte della Costituzione, per chi pensasse che essa, che si usa quando si deve parlare non solo di istituzioni ma anche di società, sia un’invenzione del signor Antonio Gramsci e che pertanto vada comunque sostituita con la parola “Nazione” – appunto dicevo se si parte da questo pilastro della nostra cultura costituzionale, beh allora la questione dell’astensione dovrebbe essere primaria preoccupazione nazionale, primaria preoccupazione dei partiti, primario oggetto di dettaglio sulle motivazioni e per trovare argini e soluzioni.

La disattenzione resta clamorosa.

Salvo qualche punto esclamativo – senza analisi e senza proposta – che aleggia in qualche dichiarazione post-voto o in qualche occhiello dei titoli dei giornali, nella sostanza la derubricazione è la parola che avvolge come un muro partiti, istituzioni e media. Come quel piccolo dossier del 2022 aveva bene documentato solo il Governo Draghi – non per sollecitazione dei partiti – aveva creato una commissione di analisi e deliberazione per tentare di togliere dal paniere delle cause le motivazioni tecniche (molte e articolate, logistiche, tecniche, regolamentative, procedurali, eccetera) – commissione presieduta dal ministro Federico D’Incà – che arrivò a una robusta proposta di legge che  avrebbe  tolto di mezzo un 20 per cento (con qualche ottimismo, per altri un  po’ meno ma comunque uno zoccolo importante) di “ragioni ostacolanti l’espressione di voto”.

Caduto il Governo Draghi, nessuno si è preoccupato di riattivare l’iter. Dopo di che la curva continua a impennarsi come il silenzio che l’accompagna. Da vari studi di varie università e centri di ricerca sappiamo che una quota di astenuti viene da ragioni di “povertà” e condizioni di sopravvivenza, per le quali le correzioni di tiro sono ancora più strutturali di quelle tecniche.

Le forme della disaffezione

Ma è evidente che la rosa delle motivazioni centrali sia legata alla disaffezione. Che tuttavia prende forme diverse:

  • non riscontro di una offerta corrispondente alla propria domanda;
  • rifiuto pregiudiziale della politica e dei politici;
  • constatazione – soprattutto negli ambiti territoriali – di non soluzioni per i problemi in atto da parte dell’agire politico;
  • effetti di corruzione e malaffare; eccetera.

Al fondo i partiti politici dovrebbero affrontare – per una parte rilevante della quota astenuti –-il tema che ha dominato per un po’ di anni le cronache politiche, cioè il diffondersi della parola “casta”, ovvero l’altro da sé, che ha prodotto effetti di riluttanza. Tema che dovrebbe essere compito primario di una forza politica affrontare con i comportamenti e con le iniziative. Non solo a parole.

Ma ancora più importante sarebbe fare entrare nel costume etico-civile degli italiani la parola “valutazione”, che è fatta di analisi del valore aggiunto (sociale, economico, funzionale alle soluzioni dei problemi) che l’agire politico dovrebbe far riscontrare da chi ha strumenti di analisi. E che sarebbe costume giusto dei media capire e spiegare a tutti.

Cosa si percepisce, al contrario?

  • Che da noi tutto vada in cavalleria.
  • Che i politici dicono spesso il contrario esatto di quel che hanno sostenuto per tempo.
  • Che domina l’annuncio rispetto al risultato.
  • Che l’obiettivo non sia la trasformazione delle condizioni ma il marketing elettorale.
  • Che non ci sia nessuna rendicontazione vera ma solo propaganda e chiacchiere, salvo aspetti tecnici di gestione controllati – in forme poco comprensibili dai più – dalla Corte dei Conti.
  • Eccetera eccetera.
Prendere il toro per le corna: un’impresa di Sisifo?

E sia detto con il rispetto dovuto a chi opera in politica facendo invece cose buone e giuste. Una realtà che ancora esiste. Da qui alla fine, la percezione tra gli addetti ai lavori che prendere il toro per le corna e cercare di affrontare cause e rimedi, diventerebbe sì il senso più importante dell’agire politico ma spesso anche impresa di Sisifo. Con un sistema che non è concepito per far funzionare la democrazia decidente ma per collocare (lavoro, stipendi, alla fine anche privilegi) troppi inadeguati. Cosa che offende soprattutto gli “adeguati” che, lo ripeto, pure ancora esistono.

Ma soprattutto questa contraddizione finisce per non spingere ad affrontare i nodi gravi, i bubboni, i segnali di malattia. E ditemi ora che non è una malattia vedere una curva di rifiuto all’esercizio di un diritto di sanzione e di scelta che è la base di ogni cultura democratica che passa da livelli sotto il 10 per cento – dal dopoguerra alla metà degli anni Settanta – e poi si impenna. Fino a diventare maggioranza degli italiani in queste elezioni europee, pur caricate di tanta importanza per gli interessi collettivi nazionali dentro un quadro europeo e internazionale gravido di pericoli.

Il caso delle elezioni suppletive di Monza dell’ottobre 2023

Che poi, nel frattempo, si sia arrivati a picchi inauditi, avrebbe dovuto scuotere un po’ l’albero. Pensate alle suppletive di Monza del 22-23 ottobre 2023 in cui i votanti sono stati il 19 per cento e in cui è stato proclamato deputato eletto Adriano Galliani. Tutti i media hanno scritto o detto con il 51,46 per cento dei voti. Sì, ma dei voti espressi, perché altrimenti avrebbero dovuto parlare di un piccolissimo numero percentuale (8 o 9 per cento) che avrebbe fatto inorridire. E anche delegittimare quella rappresentanza. Ma niente. Pagina chiusa, si è parlato d’altro.

“Esiste una democrazia senza elettori?”. Basta riformare la legge elettorale?

Ecco perché, dopo le elezioni del giugno 2024, diventa lecito tentare una proposta di analisi del voto in forma un po’ più provocatoria. Dico “provocatoria” perché so che c’è chi storcerà il naso. Ma o si mettono le cose in questi termini, oppure credo che non si solleverà nemmeno il battito delle ciglia.Ha scritto qualche giorno fa – su Arcipelago MilanoLuigi Corbani, già assessore alla Cultura a Milano e a lungo manager della prestigiosa Orchestra Verdi –

“esiste una democrazia senza elettori?”

proponendo – come tanti dicono – di mettere mano con urgenza alla riforma della legge elettorale. Non so se questo oggi finirà per portare al meglio. Ma vedo che l’inquietudine comincia ad avere voci in campo.

La tabella qui di seguito con le percentuali sui voti espressi

La tabella riguardante le percentuali sui voti espressi. Ecco, dunque, una tabella – messa a punto dall’Osservatorio che ho prima citato – che va presa con cautela, certo, con molte spiegazioni. Essa produce una cosa vera che tuttavia non cancella la cosa vera, che resta pure la – diciamo – legittimità dei risultati. Dico legittimità dei risultati, ma anche legittimità dello scandalo etico-civile per avere il nostro sistema tralasciato tutto o quasi tutto quel che si può e si deve fare in democrazia per affrontare le cause del fenomeno.

Dunque, vediamo questa tabella. In Italia alle europee ha votato il 49,34 per cento degli aventi diritto. Quindi l’astensione (che somma anche bianche e nulle) è del 51,66 per cento.

Alla fine, contano i seggi prodotti. Ed essi regolano il rapporto di forze che le urne hanno espresso. Ma in termini di rappresentanza degli italiani nel loro complesso credo che dobbiamo guardare ai dati di realtà.

Rispetto agli aventi diritto al voto:

  • Fratelli d’Italia ha convinto il 13,89 per cento degli italiani
  • Il PD ha convinto l’11,63 per cento degli italiani.

E poi tra chi ha ottenuto seggi:

  • il 4,88 per cento è il risultato di 5 Stelle;
  • il 4,64 per cento è il risultato di Forza Italia insieme a Noi Moderati;
  • il 4,34 per cento è il risultato della Lega; il 3,28 per cento è il risultato di AVS;
  • con lo 0,25 per cento di voto ma per effetto delle regole elettorali SVP ottiene 1 seggio.

Poi non ottengono seggi perché lo sbarramento al 4 per cento del voto espresso non ha portato a superare l’asticella altri partiti che comunque sempre rispetto a tutti gli italiani con diritto di voto ottengono queste percentuali

  • Stati Uniti d’Europa (coalizione di cinque soggetti attorno a Più Europa) l’1,87 per cento,
  • Siamo Europei cioè Azione l’1,58 percento e altri l’1,98 per cento.
 Una “maggioranza” che pesa solo il 22,87 per cento degli elettori

Una “maggioranza” si chiama tale in democrazia parlamentare quando essa si forma grazie ai seggi ottenuti. Quindi la parola “maggioranza” resta legittima. E tuttavia se si intende – con pari legittimità cognitiva e politica – pesare questa maggioranza rispetto al pensiero e alle scelte di tutti gli italiani essa in queste elezioni europee esprime il 22,87 per cento. Dico “rispetto al pensiero e alle scelte” perché la Corte Costituzionale ha ritenuto anche legittimo il comportamento di astensione. Cioè, lo ha considerato espressione di una opinione e di una scelta. E da qui bisogna partire per discutere. Non posso riferire tutte le pieghe del dibattito, per altro smilzo.

Le opinioni di due esperti

Prendo due spunti. Uno che mi è capitato leggendo l’opinione di Pier Luigi del Viscovo, docente di marketing e direttore del Centro Studi Fleet&Mobility, sul quotidiano Il Giornale del 23 giugno 2024. L’altro chiedendo io – per antichi legami maturati in ambiti istituzionali – un’opinione al professor Alberto Zuliani, emerito di Statistica alla Sapienza e già presidente dell’Istat.

Sostanzialmente Pier Luigi Del Viscovo dice tre cose:

  • Se invece della metà avessero votato i circa 50 milioni di aventi diritto i risultati sarebbero stati uguali. Basterebbe un campione ben fatto di 16.600 casi a dare il risultato statistico corretto delle intenzioni di voto degli italiani.
  • In ogni caso non è corretto fare analisi del post-voto per attribuire una preferenza diversa da quella espressa dai votanti.
  • È falso affermare che un risultato del 30 per cento (ottenuto sui voti espressi) equivalga al favore del 15 per cento di tutta la popolazione.

La riflessione di Alberto Zuliani la riassumo pure in tre punti:

  • Il voto espresso misura il “consenso” del Paese, ma il segnale del “non voto” non va considerato segnale debole ma segnale forte.
  • Il campione statistico in materia elettorale va citato solo virtualmente perché poi in realtà non è in grado di esprimere nessuna disaggregazione, soprattutto di tipo territoriale.
  • Comunque, scorretto è valutare il confronto dei valori assoluti perché la base cambia ogni quattro anni.

 Dunque, confrontarsi con il dato di realtà resta un duplice esercizio:

  1. con i seggi ottenuti (perché essi corrispondono al rapporto di forze tra i partiti e quindi sono un dato legittimo)
  2. ma anche con il voto non espresso perché esso obbliga il sistema nel suo complesso ad analizzare l’evoluzione delle motivazioni, argomento che non ha nulla a che vedere con riattribuire preferenze.

Riferisco una sintesi un po’ forzata. Ma voglio solo segnalare che basta mettere in campo voci – anche dissimili – per ampliare argomenti che magari sfuggono ai più e che invece aiutano a capire gli aspetti di fragilità di una società che non viene a aiutata a curarsi da una crisi di partecipazione almeno provando a lavorare sul senso dell’indifferenza e dello stesso abbandono di un diritto. Sostengo da tempo che questo ambito dovrebbe essere oggetto ‘di bandieraì del civismo organizzato sia in campo politico sia nel sistema associativo sociale e solidale. Un settore che rappresenta una parte della società che non crede, almeno in principio, che difendere e migliorare le istituzioni sia solo compito degli addetti ai lavori.

30 giugno 2024

Stefano Rolando
Stefano Rolando
Insegna Comunicazione pubblica e politica all’Università IULM. Condirettore di Democrazia futura e membro del Comitato direttivo di Mondoperaio.

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