Il tema dell’attualità del significato del nostro Venticinque Aprile torna nel 2024 con implicazioni vecchie e nuove. Costituzionalmente è una festa di tutti. Anche se politicamente sappiamo poi che una certa Italia magari depone una corona istituzionalmente dovuta, ma fatica a concepire il senso profondamente identitario di questa ricorrenza. Anzi. Abbiamo un dato demoscopico aggiornato: il 72 per cento si dichiara “antifascista”, il 28 per cento no. Dato su cui ragionare perché forse costituito da distinti fattori. Le iniziative che cercano di favorire il necessario superamento di questa frattura sono meritorie. Soprattutto parlando ai giovani con cui compito primario di chi insegna, di chi si dedica a civismo e a ruoli civili, di chi si occupa delle radici storiche dei nostri fondamenti democratici è quello di aiutare, con argomentazioni e ricerca, a saper distinguere il vero dal falso.
E oggi una iniziativa costruita sulla musica, come avete fatto qui a Modena, ha proprio un significato di legare pubblici in modo intergenerazionale.
Questa attitudine è importante proprio perché quest’anno il 25 aprile accoglie una nota coincidenza su cui una parte significativa delle istituzioni e della politica, nonché dei media e dell’editoria libraria hanno accettato l’appuntamento.
Quest’anno 2024 coincide con il centenario di una pagina cruciale e simbolica di quella storia delle radici della nostra contemporaneità. E quindi anche di quel problema di accertamento della verità e di costante ricerca dell’inquadramento tra il vero e il falso delle narrative connesse.
La pagina è quella del delitto Matteotti che pone fine al biennio “movimentista” del fascismo che aveva ancora tracce parlamentari in Italia e trasforma in senso pienamente antidemocratico il regime mussoliniano. Argomento condiviso da tutti gli storici. Salvo che, per la stragrande maggioranza questo passaggio è considerato una catastrofe. Mentre per un’altra componente politica e culturale, questo passaggio viene inteso come “una necessità”, per “riportare l’ordine nel supremo interesse della nazione”. Eccetera.
Se prendiamo i più recenti lavori degli storici italiani sul nodo storiografico che si va formando attorno al 25 aprile e all’ antifascismo, capiamo meglio. Lo storico Luca Baldissara, per esempio, dell’Università di Bologna, spiega che nel passaggio politico-istituzionale dalla visione dell’arco costituzionale alla visione bipolare che vige ormai da un pezzo, l’antifascismo scivola dall’ essere una premessa a tutto ad essere, come tutto il resto, oggetto di naturale torsione e lacerazione. Insomma, anche per gli storici un patto da riscrivere. Lo stesso studioso guarda al fattore presentissimo di questa torsione:
“ Il significato storico del 25 aprile inclina a entrare in rotta di collisione – più o meno traumatica – con la dimensione del presente, con le urgenze dell’attualità, con le convenienze politiche del momento”.
Insomma, non è più il paradigma dell’arco costituzionale a tenere in piedi quel patto.
Su Giacomo Matteotti si è scritto molto. Negli anni. E naturalmente nell’avvicinarsi di questo centenario. Si parla di cento testi nuovi, rieditati, ibridi. In libreria piuttosto che nelle edicole, come supplemento ai quotidiani.
I fatti sono quasi integralmente accertati. I contesti sono storicamente acclarati. I dettagli dell’oratoria accusatoria di Matteotti alla Camera – quella che il fascismo giudicò più preparata e pericolosa rispetto a quella dei socialisti nella legislatura precedente – sono stati oggetto di rappresentazione letteraria, cinematografica e teatrale. E anche una mostra plurimediale si è inaugurata a Roma a Palazzo Braschi di recente.
Gli eventi commemorativi partono da una traccia narrativa tesa a mostrare il volto violento del fascismo che mette a tacere brutalmente un oppositore e che, sull’onda dell’evidenza delle responsabilità della polizia fascista dopo il tentativo di depistaggio con repulisti formale ordinato da Mussolini (che arrivò a rimuovere il capo della polizia, quadrumviro dei fascisti della prima ora,Emilio De Bono, che finì venti anni dopo tra i fucilati dai repubblichini a Verona nel 1944), portò – un mese dopo – al salto di qualità dell’assunzione di responsabilità da parte del regime fascista come un monolite del potere. Un monolite, come si sa, schierato dalla parte di Caino. Caino è il fascista Amerigo Dumini, capo dei rapitori e degli assassini; Caino è il fascista Mussolini, capo morale di un movimento di estrema destra venato da ex massimalismo socialista, soreliano e insurrezionale, che aveva investito sul rancore dei reduci, sulla paura borghese e latifondista rispetto alla recente rivoluzione russa e ai suoi epigoni in Italia (“il “faremo come in Russia” appunto dei massimalisti socialisti e della frangia filosovietica che a Livorno nel 1921 aveva rotto con il PSI e fondato il Partito Comunista), ottenendo dal re il mandato a formare il governo nel 1922.
Con l’assunzione di responsabilità di Mussolini alcuni mesi dopo (“se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io ne sono il capo!”), si era perfezionato l’autoritarismo con il totalitarismo: chiuso il Parlamento, cacciati i 142 parlamentari di opposizione, tolti di mezzo i sindaci eletti sostituiti dai podestà fascisti.
Finisce anche il biennio delle illusioni. L’idea, cioè, di una parte della rappresentanza politica liberale e popolare che era meglio stare nel quadro di alleanze che i fascisti proponevano all’inizio, allo scopo – pensavano i “democratici tattici” – di controllare un partito violento ma senza classe dirigente per consumarne presto il vigore insurrezionale e violento. Fino a logorarne l’azione di governo, trascinando quindi il Paese di nuovo ad elezioni, per potere quindi modificare i destini della politica in un tempo che veniva da molti stimato da sei mesi a due anni.
I pochi che avevano visto con chiarezza gli eventi e che si erano tolti i dubbi sulla ribaltabilità del fascismo insorgente, costituiscono una lista degli italiani migliori del tempo.
C’era poi anche un’ala radicale che vedeva in faccia la realtà ma che predicava già la filosofia del “tanto peggio, tanto meglio”. Cioè, che il “male assoluto” (espressione che nascerà ben dopo nella coscienza nazionale) sarebbe stato l’adeguato deterrente per formare nel popolo l’attitudine rivoluzionaria. Che era più o meno la stessa cosa che pensava Mussolini quando era ancora massimalista socialista e direttore dell’Avanti! ma rimproverava la linea neutralista del grosso del suo partito perché lui era per una “generica rivoluzione” che sarebbe stata possibile armando il popolo per la guerra e sfruttandone poi la rabbia, il rancore e lo spirito di rivolta a guerra finita.
Già, le saldature famose degli “opposti estremisti”. Che finiscono per ribaltare i sogni mostrandone sia la mancanza di senso della storia, sia l’imprevedibilità dei processi innestati sulla violenza.
Fin qui i “fatti” rievocati e riproposti. Da cui tuttavia partono anche valutazioni sulla proiezione della storia.
La lettura possibile del delitto Matteotti oggi – certo non trascurando di connotare il senso storico – diventa interessante rispetto alle forme con cui la storia a buoni conti non si ripete mai in forma identica ma tendenzialmente può riprodurre fenomeni allusivi, soprattutto quando essi sono parte di percorsi lunghi della propria genetica.Si è parlato un po’ negli anni scorsi, alla vigilia della discontinuità universale prodotta dalla pandemia, attorno al “diciannovismo” (per usare un’espressione a cui Pietro Nenni assegnò significati simbolici) come morsa antidemocratica.
Ugualmente – come Fondazione Francesco Saverio Nitti, che presiedo dal 2008 – abbiamo riflettuto sul destino di un governo che sarebbe stato provvidenziale per l’Italia (nel 1919 e 1920), quello guidato da Nitti con radicali, socialisti riformisti, popolari e liberali, abbattuto dalla tenaglia massimalista da una parte e quella dannunziana, cioè avamposto del fascismo insorgente, dall’altra parte.
Era inevitabile fare qualche paragone nel centenario.
Ho fatto questo riferimento non per vanto, ma perché Nitti (radicale) – che formò il suo governo tra il 1919 e il 1920, con i popolari, i socialisti riformisti e i liberali, tentò di dare una prospettiva democratica al Novecento italiano, ma fu fermato dalla stessa tenaglia, il dannunzianesimo fascista da una parte e il massimalismo dall’altra. Poi – senza riguardi per un ex capo del governo – ebbe la casa a Roma sfasciata dagli squadristi, poi minacce in Basilicata, scelse l’esilio che durò vent’anni e finì con la Gestapo che lo arrestò in Francia spedendolo in un carcere in Austria.
Ora eccoci al biennio 1924-1925 che appare spesso, nel trattamento rievocativo, come materia di riflessione e anche di nuova conoscenza per i più giovani, con una certa presa emotiva che può legittimamente attraversare anche le preoccupazioni del presente. Pur tra innumerevoli differenze.
Il documento di riferimento principale delle celebrazioni di questo 2024 naturalmente è l’ultimo discorso di Giacomo Matteotti alla Camera dei Deputati pronunciato il 30 maggio del 1924. Discorso cento volte interrotto, con continue annotazioni di stenografia nei verbali su una pressione di grida, irosità, contrarietà, tentativi di zittire, in bocca a molti deputati della maggioranza fascista. Con una linea logica argomentativa – a volte anche ironica, parlamentarmente efficace, mai tribunizia – del capogruppo dei socialisti riformisti (allora PSU, con a capo Filippo Turati, presente in quell’assemblea, che aveva rotto con la maggioranza massimalista del ceppo originario del PSI).
Dopo due anni dalla marcia su Roma con Mussolini a capo del Governo, con squadristi all’opera, manganelli e brogli, ma, ancora con il Parlamento operativo, Matteotti annunciava i brogli elettorali fatti dal governo fascista, dopo avere denunciato – sempre parlando alla Camera dei Deputati – il 31 gennaio 1921 lo squadrismo in tante città italiane e, in generale un contesto diffuso di violenze e quindi anche la complicità o il lassismo del Ministero dell’Interno (ricordandoci che nel ’21 non c’era Mussolini al governo, ma Giolitti; e che Giolitti era anche ministro dell’Interno, presente a quella seduta parlamentare e parte di alcune interruzioni di quella seduta).
Alla fine dell’intervento del 24 maggio del 2024 Matteotti avrebbe anche annunciato che avrebbe ancora parlato di corruzione in seno al potere e alla polizia. Con riferimento alla concessione governativa per la società petrolifera americana Standard Oil e all’ipotesi di tangenti che riguardavano appunto politica e polizia (molti hanno parlato dello stesso fratello di Mussolini,Arnaldo). Argomento, questo, considerato “la goccia che aveva fatto traboccare il vaso” per farlo tacere. Evidentemente per sempre.
Chi volesse avere i testi integrali dei due discorsi di Giacomo Matteotti – che sono parte di una antologia morale dell’alto parlamentarismo della storia d’Italia – li può trovare in rete a meno di 5 euro in una piccolissima edizione di Garzanti con la prefazione di Sergio Luzzatto.
Le mie – oggi – saranno cinque riflessioni orientate a cogliere il monito di quella storia, monito per il presente e per il futuro. Farò anche qualche riferimento ai libri usciti di recente sulla materia.
Il carattere storico minoritario del riformismo
Il primo tema che ci offre la storia comparativa è quello del carattere storico minoritario dei riformisti nella vicenda italiana.
L’archiviazione del Novecento non si è mai conclusa. Nel rispetto per la dichiarata figura politica di Giacomo Matteotti come esponente del riformismo italiano è necessario connettere quella fase di avviamento del XX° secolo, che comprende la Rivoluzione russa e con essa la condanna ideologica nella sinistra della posizione riformista e gradualista rispetto a quella rivoluzionaria. Tutto ciò con il riverbero che ci fu nel duello a sinistra sia tra queste due posizioni in quel tempo, sia negli anni della dittatura. Anni in cui il duello non fu mai dismesso malgrado la solidarietà antifascista. Duello anche feroce e comunque segnato da un rifiuto sprezzante del riformismo da parte dell’ideologia comunista legittimata dal potere sovietico conquistato nel 1917. E con riverbero forte anche dopo la Seconda guerra mondiale. Quando era in vigore l’unità tra comunisti e socialisti per la quale la sinistra italiana non votò a favore della costituzione dell’Europa e che votò contro la Nato. E poi dopo la rottura tra i due partiti sui fatti di Ungheria nel 1956, quando negli anni Sessanta – non casualmente – si formò il centrosinistra per le riforme con i comunisti contrari. E fino alla caduta del muro di Berlino in cui la parola “riformisti” rimase a caratterizzare una parte minoritaria della sinistra gradualista nel disprezzo permanente di un’altra parte. O per lo meno di una parte significativa di quella parte. L’opzione riformista diventa formalmente linea politica legittima dopo la scomparsa della divisione dell’Europa in blocchi e quindi dopo la guerra fredda.
Parlando di Matteotti e di quella che lui stesso considerò “una certa solitudine” si deve capire che la sua denuncia a viso aperto è stretta a tenaglia, dall’essere da un lato minoranza rispetto ovviamente alla maggioranza del governo a guida fascista; e dall’altro lato rispetto al suo quadro politico in cui era in costante polemica (di minoranza) con i massimalisti.
La citazione di questa demarcazione è un atto dovuto circa la posizione di Giacomo Matteotti, espulso nel 1922 dall’allora Partito Socialista che era appunto a maggioranza massimalista. Ma è anche un atto dovuto per ricordare che il duello ideologico rese in molti periodi del Novecento la posizione di questi due schieramenti interni al socialismo italiano molto più ripiegati sul loro conflitto interno che sulle vicende stesse della politica italiana, fascismo compreso. Certamente considerando la posizione degli amministratori nel territorio (come lo erano appunto i riformisti turatiani del primo Novecento, come ad esempio il sindaco di Milano Emilio Caldara) figure considerate “minori” nella nomenclatura politica del tempo.
Come tutti i presenti avranno colto è questo lo scenario tematico in cui si colloca l’allusione storica contenuta nel titolo stesso dell’opera che qui si rappresenta fra due ore, Il pellegrino del nulla, titolo che ricorda l’infelice definizione di Antonio Gramsci – insieme ad altre, di parte comunista e socialista massimalista, circa la figura di Matteotti – secondo alcuni poi riveduto criticamente nei tempi della dura carcerazione di Gramsci, in ogni caso frutto di quella solitudine e di quella condizione minoritaria a cui ho fatto cenno.
Il riverbero attuale della questione sta ancora nell’incertezza sull’uso dell’espressione “riformisti” molto caratterizzante ma anche attivata con vaghezze e improprietà di significati. E in particolare sembra legittima la considerazione sul fatto che il vero approccio di un riformismo concreto che affronta i necessari cambiamenti e le necessarie priorità sociali anche oggi appare debole e spesso solitario.
È lo spunto che caratterizza alcune biografie uscite in occasione del centenario, anticipate nel 2021 dalla scrittura in forma di romanzo di Riccardo Nencini (Solo, edito da Mondadori), tra cui si segnala L’Italia migliore di Federico Fornaro, Bollati Boringhieri (marzo 2024):
“Giacomo Matteotti fu un attore di primissimo piano nella sinistra italiana di inizio Novecento, tanto che «il mito popolare di Matteotti, coltivato clandestinamente durante il ventennio fascista non solo dai fuoriusciti ma anche dalla gente comune, contribuì certamente al sorprendente risultato dei socialisti nelle elezioni per l’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946». L’Italia migliore si rispecchiava in lui e nel suo riformismo intransigente”.
Matteotti e il coraggio che implica l’affermazione della verità
Il secondo tema è quello del significato, che la politica svela ma anche cela, circa il fatto del coraggio necessario implicato nel dire la verità.
C’è stato un fattore di intransigenza nell’educazione civile post-risorgimentale degli italiani che ha interpreti di magnifico spessore, come il giovanissimo spirito puro e spezzato dal fascismo che fu Piero Gobetti (bella l’ultima ricostituzione del suo pensiero nel piccolo e originale volumetto curato da Franco Corleone nelle edizioni Menabò nel 2021) che spese ogni parola possibile per aprire gli occhi ai suoi contemporanei sul “trasformismo, l’insincerità, i compromessi, i ricatti” di Mussolini, che nell’ottobre del 1923 – a fascismo insediato – fa la conta degli “intransigenti” e costruisce il teatro in cui si sarebbe svolto l’atto supremo della liquidazione della libertà collettiva nel 1924, caso Matteotti compreso. Così come il racconto di Gobetti delle elezioni – parte integrante del copione polemico dell’ultimo atto inscenato da Giacomo Matteotti – ci ricorda gli elementi di farsa delle non democrazie oggi, a cominciare dalle vittime del nostro tempo per la responsabilità assunta nel dire la verità sull’oscuramento della democrazia, Anna Politkovskaja in testa. Da qui l’attenzione delle nuove biografie di Matteotti che, come già detto, escono dai fatti noti e vanno alla ricerca di verità anche scomode e meno scontate. È per esempio il caso della biografia di Gianpaolo Romanato, Un italiano diverso, Bompiani, marzo 2024, in cui si ricorda che
“Matteotti fu un uomo duro, intransigente, mai disponibile al compromesso. Un politico spesso settario che non faceva sconti a nessuno, neppure a sé stesso, che suscitava scarse simpatie anche nel suo partito, probabilmente amato soltanto dai poveri contadini polesani dei quali aveva sposato la causa. Andò contro i suoi stessi interessi e contro la sua classe sociale, che non gli perdonò mai il tradimento. Il mito che nacque già all’indomani del suo assassinio non deve trarre in inganno: in vita Matteotti fu un uomo profondamente divisivo. Ma fu anche un combattente intrepido, un osservatore lucido che comprese la natura del fascismo prima e meglio di tutti, l’unico che in parlamento non smise mai di parlare e che per questo pagò un prezzo crudele”.
La centralità della dimensione valoriale nell’azione politica
Il terzo tema è rappresentato dalla centralità della dimensione valoriale nel fare, pensare, proporre la politica.
La qualità sociale come contenuto dell’agire politico resta il fattore discriminante rispetto alle derive autoreferenziali che si sono incrociate nei secoli con collusioni negli affari, nelle complicità con sistemi illegali e illegittimi e anche nella pura contemplazione di un potere in cui nella storia è stato spesso più importante l’agire propagandistico (annunci, false promesse, irresponsabili dichiarazioni, illusionismo) che l’agire per la “rimozione degli ostacoli – oggi motivazione costituzionale – di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Essendo chiarito che il principio valoriale è costituto dal fatto che
“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Il fascismo ha trasferito la valorialità sociale nel vitalismo maschilista, nel primato del manganello, nell’assioma dei “molti nemici molto onore”, nella conquista coloniale di “un posto al sole”, nel delirio popolare per le dichiarazioni di guerra.
Troppa fatica per la contemporaneità. Meglio togliere di mezzo l’idea che i valori contino qualcosa e derubricare così la fatica morale di dare un senso alla politica stessa. Nel valore di una storia conclusa drammaticamente c’è anche la possibilità o meno che si conservi il significato profondo, oppure che il velo della retorica essenziale consegni ormai una personalità al paradigma del proprio omicidio non a quello della propria vita. È questo lo sguardo dell’ultimo saggio di questo periodo, scritto da Antonio Funiciello (Tempesta, edito da Rizzoli, marzo 2024) che così si profila:
“Nella prefazione all’edizione dei suoi discorsi parlamentari, uscita nel 1974, Pertini scrisse:
«Giacomo Matteotti è ancora, dunque, in mezzo a noi, con la freschezza attuale dei nostri pensieri».
Sarebbe bello se l’amato ex presidente avesse ragione. Parte da questa valutazione la riflessione di Antonio Funiciello: la figura di Giacomo Matteotti, del politico e dell’uomo Matteotti, è rimasta schiacciata dietro la lapide del martire, dipinta nella solitudine di un antifascismo quasi troppo precoce e fallimentare, stravolta dai giudizi fuorvianti di alcuni estimatori a lui coevi come Gobetti, o dagli attacchi degli avversari comunisti dell’epoca”.
Il martirio come testimonianza di fede o di alti valori etici nella vita pubblica
Il quarto tema è quello del martirio come testimonianza.
C’è una evidente lettura incrociata della teologia cristiana e della filosofia laica attorno al rilievo del martirio per testimonianza di fede o per testimonianza di alti valori etici nella vita pubblica (che i nostri pur laici maggiori combattenti antifascisti che hanno patito tribunali, condanne, detenzioni e durissime pene, hanno chiamato “fede”). I cristiani hanno riconosciuto questa storia nel capitolo della martirologia storica ma anche in epoca moderna – per esempio Dietrich Bonhoeffer – riconoscendo cattolici e protestanti nelle vittime del nazismo.
I laici ricordano i 30 mila anni di condanne da parte dei tribunali fascisti, ma anche centinaia di fucilati a seguito di sentenze, e le centinaia di migliaia di deportati, internati, caduti per cause provocate dal regime, tra cui distintamente i 110 mila caduti nella lotta di Liberazione.
Non c’è alcuna storia consumata dietro a queste rievocazioni.
Sono “pietre di inciampo” perenni nella nostra pedagogia civile. E Giacomo Matteotti è il capofila di questa lunga e dolorosa storia che prolunga il suo alone nella nostra vita attuale e nella capacità di connettere la memoria con lo sguardo critico sul presente.
Ma perché questo abbia una riconosciuta riscoperta è bene rivisitare a fondo la sua biografia. Lo hanno fatto Marzio Breda (quirinalista del Corriere) e Stefano Caretti (storico dell’Università di Firenze) con Il nemico di Mussolini (edito da Solferino, febbraio 2024),
“perché, come è stato scritto, «prima di lui c’era stata l’opposizione al fascismo, ma l’antifascismo come valore, come scelta consapevole e prioritaria nasce solo con l’estate del 1924, nel suo nome».
La coscienza della fragilità della democrazia
Il quinto tema – che ricuce e “trasversalizza” tutti gli altri – è costituito dalla coscienza della fragilità della democrazia.
Non solo abbiamo finalmente chiaro che la democrazia liberale, che custodisce con forza il principio che governo e controllo devono avere pari poteri in una articolazione degli equilibri rispetto a cui è irrispettoso invocare a ogni piè sospinto il “decisionismo”, costituisce oggi assetto minoritario nel mondo, ma abbiamo anche chiaro che gli ambiti in cui essa è custodita da un irriducibile sentimento popolare sono ancora cosa più limitata.
Quindi questo tema è connesso alla liquidabilità sostanziale della democrazia formale in Occidente e anche in Italia dove dagli anni Novanta in poi il populismo ha reso questa parola una “facciata” di ignoti aspetti, per lo più vissuti come “tecnicismi” e in cui si va perdendo il senso evolutivo delle conquiste storiche in suo nome. Senso attraverso cui il triangolo morale Risorgimento, Resistenza, Repubblica ha formato una parte della cultura civile degli italiani assottigliandone poi la forza pedagogica. Che oggi appare sfibrata, barattabile, non prioritaria.
Una domanda questa che va fatta con insistenza, metodo e affetto civile alle giovani generazioni, in ogni modo possibile. Riflettendo cioè sul metodo per tenere vivo un concetto fondante, così come lo ricorda il filosofo politico Carlo Galli nel suo recente Democrazia, ultimo atto? (Einaudi, 2023), che fa il punto sul dato di fatto che le
“democrazie hanno perduto di fatto la consapevolezza della propria origine e della propria complessità e vulnerabilità fino a risultare deficitarie per eccessi opposti, a causa di conformismo e automatismi da una parte e di esasperazioni polemiche dall’altra parte”.
Conclusione.
Il presente e soprattutto il futuro di una storia così dura e magistrale dipende molto dalla disponibilità dei giovani di accogliere questa lezione oppure di rifiutarla.
Non è detto oggi che sia un automatismo recepire la memoria collettiva che perde pezzi (è normale), perde priorità (dipende dai contesti), perde interpretazione (dipende dalla scala dei valori che ogni generazione tende a darsi). Non c’è una ricetta che vale nel tempo.
Ho citato all’inizio il dato del 28 per cento che non ritiene di avere a che fare con una identità antifascista. Ho detto anche che non è un dato del tutto omogeneo.
C’è chi critica il modo con cui l’antifascismo è stato trattato o perché troppo di parte rispetto al suo pluralismo (anche dei militari italiani su certi fronti) o perché si sono celati eccessi di violenza. C’è chi aveva tradizioni di famiglia che magari non voleva offendere (ma i casi di coraggio critico ci sono stati e anche molto importanti).
In realtà sarebbe ancora necessario un maggior spazio in cui conta spiegare bene il monito della storia (e in queste cose – fatemelo dire con chiarezza in questi giorni – che farebbe la differenza un serio servizio pubblico radiotelevisivo coerente con la sua storia di pedagogia civile).
Magari c’è ancora chi crede davvero che i treni andassero in orario e che bonificare le paludi preservi dall’aver mandato a crepare un numero gigantesco di italiani in una guerra sbagliata nelle motivazioni e nella gestione. E c’è chi pensa che la delega a un capo autoritario in certi momenti serva ad un Paese come l’Italia. E ancora c’è chi è sensibile alla propaganda, magari con occhi bendati. Per esempio, la Repubblica di Salò come salvaguardia dell’onore e dell’orgoglio italiano. Senza vedere né la miseria di uno Stato fantoccio né l’inevitabilità – questo sì per l’onore della Patria – della guerra civile.
Queste polemiche non sono mai finite. E forse ormai manca la forza pacificante di una diffusa e profonda cultura costituzionale per ricomporre quelle fratture.
In un’Italia che va preferendo risse e conflitto verbale rispetto ad una operosa dedizione allo sviluppo, all’educazione e al progresso, finiscono per riaprirsi, anche se scomposti, radicalismi, violenze verbali e perdite della memoria.
Per la mia generazione, per esempio, è servito ascoltare l’accorata retorica di grandi maestri.
Magari severi, ma credibili. Per me uno per tutti, Sandro Pertini. Capace di una pedagogia fulminea. Come disse a Giorgio Pisanò, senatore dell’MSI, che voleva pari legittimità per chi aveva fatto la Resistenza e chi aveva militato nella Repubblica di Salò:
“Guarda Pisanò, abbiamo vinto noi e sei diventato senatore; se aveste vinto voi io sarei morto o in galera”.
Ma è servito anche percepire la voce di uomini e donne di nuovo conio, a volte senza debiti con il passato, a volte ironici e divertenti. Anche radicali, ma nel tempo in cui tutti avevano il riconquistato diritto di parola.
Uno di quelli che mi ha quasi sempre convinto non era un ideologo, non era un politico, non metteva le sue affermazioni in punta di transitorie ideologie. Era, se vogliamo, un moralista tagliente dell’etica pubblica. E usava questa visione per fare letteratura e, come sceneggiatore, soprattutto il cinema. Dunque, un modo di entrare nei sentimenti della gente diciamo pure abilmente. Si chiamava Ennio Flaiano.
Propongo una sua conclusione a questo discorso che appartiene all’occhio sferzante di un critico di professione. L’ironia a volte è persino più radicale dell’ideologia. Ma nell’età dell’incertezza ha una forza da non trascurare. Sono parole dure, ma spiegano a fondo il rigetto genetico di una storia che non esaltato ma umiliato l’Italia.
“Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di cultura, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta. Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista. Non ama la natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi, ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito. Odia gli animali, non ha senso dell’arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d’altronde non rispetta lui. Non ama l’amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri”[1].
Modena 28 aprile 2024
[1]Ennio Flaiano, Don’t forget (1967-1972) in Diario degli errori. Appunti, 1950-1972, Milano, Adelphi, 1976. Poi in Scritti postumi. Introduzione di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1996, LXIII – 1405 p. Il passo si trova riprodotte on line in vari siti. Ad esempio in https://www.lebellepagine.it/res/site51630/res667592_Ennio-Flaiano-il-fascismo-degli-italiani.pdf.