Devo premettere che non sono un vero esperto di sanità, di economia sanitaria, di sociologia della salute, di rapporto tra epidemiologia, domanda sanitaria e politiche pubbliche nel settore. Sono un professore universitario di un ambito disciplinare economico che ha fatto il direttore generale nello Stato quando la Sanità era statale e ha fatto il direttore generale nel sistema regionale quando la sanità è stata regionalizzata. Sono soprattutto un cittadino che ha visto nascere il Servizio sanitario nazionale 45 anni fa e che più volte nella vita ha lodato quella riforma come giusta per tutti e – per le prove a cui tutti siamo esposti nella vita – in subordine anche giusta per sé stesso e per la propria famiglia. […]. Occupandomi di “rappresentazione” (il chi, perché, come nel processo di dar forma comunicativa a un problema più o meno vero fino a farlo diventare parte del dibattito pubblico ovvero argomento in agenda per un minuto, o per un giorno, o per un anno, o, eccetera […] una sola volta ho trattato l’argomento sanità. Quando mi hanno ricoverato per un’operazione chirurgica non banalissima e ho parlato (dal letto di ospedale) dell’umanità che avevo attorno e che attraversava quelle relazioni speciali che sono a metà strada tra la fredda e solitaria tecnica e la calda fraternità solidale. Ma anche per segnalare che si vorrebbe essere accolti negli ospedali nella propria complessità di “pazienti” mentre invece le cure sono sempre più separate, particolaristiche e spesso iper-farmacologizzate (fonte di salute, certamente. ma a volte anche di altre malattie). Oggi parto dalla gerarchia delle notizie di questo inizio di primavera e – al netto di guerre, schermaglie tra i politici italiani, avvelenamento che il “caso politico di Bari” sottende e scontato respingimento della mozione di sfiducia per la ministra Daniela Santanchè – colgo un buon motivo per tornare sul tema nella tenuta in agenda di una notizia-evento riguardante proprio la sanità italiana.
Quattordici scienziati italiani
Mi riferisco a un documento – attorno alla cui trama non circolava nessun presentimento e nessuna fuga di notizie, dunque con carattere di parto segreto – che firmato, da quattordici scienziati italiani, tra cui un premio Nobel (il prof. Giorgio Parisi, fisico), pone con la chiarezza di parole e argomentazioni il tema dello stato di crisi del Servizio Sanitario Nazionale. Legge 833 del 1978 costruita su tre concetti di base: universalità, uguaglianza, equità. Dunque apre una “rappresentazione” – eccoci allo specifico – di problemi di degenerazione finanziaria, di obsolescenza infrastrutturale (per dirne una, nel documento è scritto che due ospedali su cinque hanno più di 50 anni e un ospedale su tre è stato costruito prima del 1940), di qualità gestionale e di conseguenze sociali (questi i quattro snodi più sottolineati) del maggior bastione normativo della politica nazionale in materia di salute. Appunto, l’SSN.
Comunque, il documento ha avuto buon impatto mediatico. Due o tre pagine sui quotidiani. Fascia di apertura nei telegiornali. Qualche apparizione del problema nei talk-show. Si vedrà se ci sarà scia lunga o solo trasferimento nelle sedi degli addetti ai lavori. Freddezza per ora del Governo che, per bocca del ministro della Sanità, professor Orazio Schillaci, nega il definanziamento. E il suo sottosegretario Marcello Gemmato interviene per quantificare la tenuta degli impegni finanziari pur ammettendo che ci sono problemi riorganizzativi a cui mettere mano:
“Certo si può sempre investire di più in sanità e lo stiamo facendo, ma ai maggiori finanziamenti vanno soprattutto accompagnati nuovi modelli gestionali più innovativi e performanti. Pragmatismo, visione, programmazione. Questi i principi che ispirano tutto il lavoro dell’Esecutivo, che sta dimostrando di tenere la sanità, soprattutto la sanità pubblica, sempre in cima all’agenda politica, senza ideologie e pregiudizi”
Siamo in tempo di elezioni e c’è il rischio che ci voglia un certo tempo per la politica per adeguarsi al dibattito “pragmatico senza pregiudizi”, dovendo essa passare dall’estrema genericità di approccio a farsi carico di qualche più approfondita analisi. In ogni caso, più in generale nelle prese di posizione, si colgono consensi ma anche irritazioni nel milieu, appunto, degli addetti ai lavori.
Tuttavia per il momento – questa è una mia percezione – questo documento entra in fasatura con una sensibilità diffusa tra i cittadini che, a valle della crisi della pandemia, hanno cominciato a percepire scricchiolii nelle prestazioni, ritardi nelle cure, allungamenti paurosi delle liste di attesa, taglio di interventi di controllo (tipo tac, risonanze e eccetera) e fuga di operatori (all’estero e nel privato). Certo, per la stragrande parte dei cittadini, restano poco chiare le cause. Incertissime le soluzioni. Ma la percezione resta diffusa. Con sconcerto dei residenti – territorio per territorio (soprattutto quelli in cui il sistema ospedaliero di regioni una volta floride è ora finanziariamente collassato – ma anche dei flussi abituali da una parte all’altra dell’Italia (purtroppo da sud a nord, con 800 mila persone all’anno che emigrano temporaneamente per curarsi).
Di bocca in bocca la domanda da mesi è: ma che cosa succede?
Nelle apparizioni dei politici sull’argomento tende a mantenersi per lo più il commento guardingo nella sostanza anche se ammantato da punti esclamativi: bisogna parlare della sanità! Bisogna aumentare i fondi della sanità! Bisogna assumere più medici! Eccetera.Prima di entrare nel merito delle cose giuste ed eventualmente delle cose non chiare del documento dei quattordici scienziati italiani, devo dire che le mie prime due impressioni sono state di apprezzamento.
La prima. Ci lamentiamo sempre che il civismo autorevole è andato in pensione, ma qui una volta tanto “intellettuali scientifici insieme ad esponenti qualificati di sistema” (diciamo così rispetto al gruppo non omogeneo dei firmatari, tra cui c’è anche il presidente del Consiglio superiore della Sanità Franco Locatelli) lanciano una argomentazione di pressione civica con esposizione di argomenti di interesse generale.
La seconda. Poi si capiranno pregi ed eventuali limiti di questo documento che ha scelto una via comunicativa ma non demagogica, ovvero sintetica ma non senza trattamento analitico, ma è possibile che, messi sul tavolo pubblico certi argomenti, essi diventino parte di una consapevolezza appunto pubblica più robusta. Quali argomenti? Quello del posizionamento finanziario italiano rispetto ai paesi di testa dell’Europa; quello che svela che la pandemia ha portato sconquasso organizzativo e funzionale negli ospedali da cui non si è ancora usciti (“pressioni insostenibili sugli operatori” è scritto); quello che porta a prendere posizione contro la teoria degli sprechi delle risorse; quello che pone le questioni delle disuguaglianze territoriali e sociali in ordine alle prestazioni; quello che riapre non conflittualmente in sé ma in termini di effetti di gestioni inadeguate il problema del rapporto tra sanità pubblica e privata. E altro.
Mi limito qui ai punti essenziali del documento. L’ipotesi è che ciò potrebbe portare a quello che si chiama “dibattito pubblico”, in questo caso esprimibile anche con confronto sociale, istituzionale, politico, professionale e mediatico. Insomma, una spinta importante a riqualificare i contenuti anche di posizioni difformi, ma puntando ad una acculturazione finalmente maggiore di tutti coloro che considerano la sanità e la salute problemi molto importanti. Cioè, salvo gli stupidi, forse salvo alcuni bambini piccoli fortunati, tolto magari qualche miliardario, tutti gli altri dovrebbero appunto pensare che si tratta di cose molto importanti. Salvo non trovando quasi mai un po’ di pedagogia sociale, un po’ di vero insegnamento, su ciò che è veramente importante e ciò che veramente dovrebbe essere oggetto di partecipazione per capire.
Mentre si trovano paginate sulle diete, su quanto zucchero, quanti carboidrati, quanto olio nell’insalata, eccetera e c’è sempre abbondanza mediatica del minimalismo informativo. Cosa che mi ha messo in una certa evidenza un brano delle dichiarazioni fatte a La Repubblica da uno dei firmatari del documento, il professor Alberto Mantovani, immunologo e direttore sanitario dell’Humanitas a Milano che dice:
“Non sono uno di quelli che lodano i tempi passati. Oggi gli studenti di medicina sono molto meglio preparati di quando io ero studente. Forse però non riusciamo a trasmettere bene la componente vocazionale di questo mestiere. Ai miei tempi c’era la coda per entrare a chirurgia, oggi la coda si è trasferita a chirurgia estetica”.
Consensi e dissensi
Dette queste lodi civiche di cornice, si dovrebbe anche capire se le argomentazioni più importanti del documento riescano anche a mettere d’accordo gli addetti ai lavori. Qui si percepiscono alcuni assensi ma anche alcune riluttanze.
La prima riguarda il punto centrale delle argomentazioni (come titolano i giornali): servono più finanziamenti! Nei primi commenti, che appaiono anche in rete, comunque da personalità competenti, si tende a negare che le risorse siano insufficienti e che siano state tagliate. Sono il doppio degli anni Novanta, sfiorando ora i 170 miliardi di euro all’anno. Con l’aggiunta (da vedere se in attuazione o ancora in iter burocratico) delle importanti poste previste dal PNRR. La controversia riguarda un punto: se la spesa si calcola in percentuale rispetto al PIL l’Italia è inferiore, se la si calcola rispetto a quanto è destinato pro-capite è la demografia a decidere e in questo caso l’Italia è superiore.
Spesso questi commenti sono corredati dalla valutazione che sprechi, elementi di corruzione, inadeguata gestione portino a distorsioni d’uso delle risorse in partenza considerate come leva sufficiente per una sanità efficiente. In ogni caso proprio all’indomani della pubblicazione del documento dei quattordici scienziati un riscontro sulla questione finanziaria è venuto (in relazione al PNRR) dalla Conferenza delle Regioni nel parere alla Conferenza Unificata – come riferisce Il Sole 24 ore del 4 aprile 2024– che
“ha chiesto l’abrogazione del titolo 1 comma 13 del dl Pnrr che taglia 1,2 miliardi di euro alle Regioni relativi prevalentemente a opere per la sicurezza sismica delle strutture ospedaliere, o un impegno formale per la reintegrazione dei fondi”.
Tendenzialmente nelle pieghe del dibattito immediato trova generale consenso il tema sollevato dal documento sulla delicatezza oggi del trattamento del patrimonio professionale del sistema sanitario. Questo, per esempio il passaggio del commento che fa il quotidiano Avvenire:
“La situazione del personale sanitario è anche più critica di quella delle strutture. L’appello degli scienziati dice che «nell’attuale scenario di crisi del sistema, e di fronte a cittadini/pazienti sempre più insoddisfatti è inevitabile che gli operatori siano sottoposti a una pressione insostenibile che si traduce in fuga dal pubblico, soprattutto dai luoghi di maggior tensione, come l’area dell’urgenza».
E poi il giornale cattolico italiano aggiunge:
«È evidente che le retribuzioni debbano essere adeguate, ma è indispensabile affrontare temi come la valorizzazione degli operatori, la loro tutela e la garanzia di condizioni di lavoro sostenibili, essendo anche particolarmente grave la carenza di infermieri, in numero ampiamente inferiore alla media europea)».
Ma la critica che appare più frequente – e su cui il documento non scava – è legata alla crisi del processo di regionalizzazione della governance.
Leggo per esempio:
“Venti sistemi sanitari diversi, che non riescono a connettersi tra di loro e rispetto a cui il coordinamento ministeriale non funziona”.
Oppure leggo:
“La verità è che la riforma di regionalizzazione, la legge 502 del 1992, rispetto ai suoi propositi in fondo non è mai stata profondamente attuata”.
Su questa materia la discussione viaggia da tempo e in parallelo con l’inquadramento pubblico di alcune questioni fatto dal documento dei quattordici scienziati vi sono molti cantieri di analisi e di proposta con evidenti diverse soluzioni. Sono al corrente – per mio impegno in quell’ambito – di un team di ricerca presso il Circolo e Centro Studi “Emilio Caldara” a Milano, guidato dal professor Aldo Ferrara che sta ultimando un’articolata analisi in cui la regionalizzazione e l’aziendalizzazione del sistema ospedaliero sono oggetto di una verifica di andamenti considerati parti della crisi o per lo meno della insufficienza funzionale di cui si sta parlando.
Circa il “posizionamento finanziario” nella sanità rispetto a Francia e Germania questo studio opta per misurare il dato non sul PIL ma sulla spesa pro-capite e dunque non considera il dato inferiore agli altri maggiori stati europei.
Infine c’è traccia di commenti sull’eccesso di allarmismo che lancia l’idea del collasso del Servizio Sanitario Nazionale – leggo –
“quando per le cose veramente gravi e importanti non c’è alcuna caduta seria di prestazioni, perché il disordine provocato dalla pandemia ha messo i manager della sanità regionale in condizione di contenere divaricazioni di bilancio chiedendo riduzioni di prestazioni, che tuttavia gli ospedali identificano non con le cose di grande importanza ma con le cose ambulatoriali ovvero quelle che hanno a che fare con il controllo e la diagnostica”.
Cosa sottintende questa osservazione? È bene spiegare con parole semplici questo passaggio. Faccio qui sintesi di scambi di opinioni con personale in trincea. Per qualunque cosa oramai i medici ti mandano a fare una tac o una risonanza. Causa queste riduzioni si dice che sia proprio questo il genere di prestazioni che ora produce le maggiori liste d’attesa. Che poi fermano i processi di diagnosi (per certe patologie creando certamente giustificate ansie). Quindi per chi può trasferimento nel privato, in cui sono salvaguardati (abbastanza) coloro che sono coperti da assicurazioni. Mentre però 9 milioni di persone finiscono attualmente ad essere scoperti da cure in buona parte necessarie.
Nuvole o cambiamenti?
Insomma, si intrecciano cause serie ma congiunturali con cause più profonde strutturali.
Rispetto a cui per alcuni funziona l’allarme forte lanciato. Per altri funzionerebbe un piano pragmatico di adattamenti e soluzioni, possibile se la classe dirigente che presidia le scelte fosse tutta all’altezza delle problematiche.
E questo tema – segnalano altri analisti, tra questi anche chi, come il mio amico Nadio Delai, che per venti anni ha realizzato il rapporto annuale su Ospedali e salute per l’Associazione italiana dell’ospedalità privata –
“si pone al centro di questo percorso ventennale un fattore di inadeguatezza di classe dirigente per avere alla fine trasformato spesso la burocrazia sanitaria di origine politica in management”.
Una seconda osservazione che Delai, che è stato a lungo direttore generale del Censis, fa è rivolta anche alla responsabilità sociale dei cittadini:
“nel senso di ricordarci tutti a fronte di appelli all’aumento dei finanziamenti che in Italia il 50 per cento dei cittadini non dichiara nemmeno un euro di IRPEF, la vera anomalia questa che rende le risorse finanziarie insufficienti come se i servizi pubblici dipendessero da una grazia celeste e non dal gettito fiscale”.
Ecco, ho provato a fare questa veloce e forse insufficiente sintesi di un avvio di dibattito, che sarà certamente ripreso sia in sede politica sia in sede tecnica. Che tuttavia non deve far smarrire l’afflato civile che il documento degli scienziati ha inteso segnalare nel porre questioni che esistono e che comunque fanno parte di un divario anche se non quantificato tra percezioni e dati di realtà. Che nel caso italiano è divario diffuso e causa di molte irrazionalità collettive e comunque di sbocchi politici pretestuosi o opportunistici. A fronte della scarsissima propensione a vere revisioni normative e a vere riforme con obiettivi sociali.
Per quante volte si è detto “non è vero che dopo la pandemia sarà tutto come prima” anche questa volta si deve dire che scuotere la coscienza degli italiani dall’apatia interpretativa è necessario e giusto ma poi serve un quadro di confronti con la testa sulle spalle per far prevalere non le solite finte riforme ma provvidenziali correzioni di rotta.
6 aprile 2024
[1] Podcast n. 89 – Il Mondo Nuovo – 6 aprile 2024. Cf. https://stefanorolando.it/?p=9040.