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Nucleare: l’Iran ‘sfora’ sull’uranio, sale la tensione

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 18/06/2019

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Entro la fine del mese, nel giro di dieci giorni, l’Iran supererà il limite di scorte di uranio fissato dall’accordo sul nucleare sottoscritto nel 2015 e finora rispettato alla lettera. Questo non significa che l’Iran sarà in grado di produrre l’atomica in tempi brevi né che la produrrà, ma prova, piuttosto, che la politica di massima pressione portata davanti dagli Stati Uniti e dai loro miopi partner mediorientali sta logorando i nervi e la pazienza delle autorità iraniane.

Se Donald Trump ha montato tutto il suo arsenale anti-iraniano per indurre Teheran a rinegoziare un’intesa che ha già negoziato a concluso, rischia di sortire l’effetto opposto: che Teheran smetta d’attenersi all’accordo, finora scrupolosamente osservato, nonostante gli Usa l’abbiano denunciato.

Se, invece, il magnate presidente cerca un protesto di conflitto con l’Iran, al servizio degli interessi dei suoi ‘amichetti’ mediorientali, sauditi e israeliani, rischia di trovarselo servito su un piatto d’argento. Con la complicità dei più ottusi dei suoi interlocutori europei, un governo britannico senza guida né direzione e il vice-premier italiano Matteo Salvini che, in visita a Washington, schiera l’Italia a fianco degli Usa su questo fronte, come se ne avesse titolo e cognizione di causa.

L’allarme sulla tenuta dell’intesa del 2015, che Cina e Russia, e pure gli europei, ritengono valida, scatta quando un portavoce dell’Agenzia iraniana per l’energia atomica dichiara che l’Iran sta per superare il limite di scorte di uranio fissato. Behrouz Kamalvandi fa una conferenza stampa, che la televisione di stato iraniana trasmette in diretta: si tratta di fare fronte “ai bisogni della Nazione”.

L’annuncio segue le tensioni nel Golfo innescate dalle accuse di Washington a Teheran di essere all’origine di incursioni contro petroliere nello Stretto di Hormuz, a maggio, e nel Golfo di Oman, la settimana scorsa. L’Iran respinge le accuse e le prove a suo carico non sono schiaccianti. Ma, notano ricercatori come Riccardo Alcaro dell’Istituto Affari Internazionali, “se anche fosse stato l’Iran, si tratterebbe di una rappresaglia, contro la politica di massima pressione Usa”, esercitata denunciando l’intesa sul nucleare e ripristinando e inasprendo le sanzioni (economiche, finanziarie e commerciali), “non di una provocazione”.

L’8 maggio, a un anno dal ritiro unilaterale degli Strati Uniti, il presidente iraniano Hassan Rohani avvertiva i partner che Teheran aveva quadruplicato la produzione di uranio a basso arricchimento (non oltre il 3,67%), utilizzato come combustibile per i reattori nucleari. Un aumento delle riserve di uranio e acqua pesante era stato certificato anche dall’ultimo rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) di fine maggio, restando, però, entro i limiti fissati dall’accordo, cioè 202,8 kg di uranio e 130 tonnellate di acqua pesante.

Contemporaneamente, analisti e specialisti di una ventina di Paesi europei firmavano un appello perché gli Stati Uniti tornino sui loro passi e reintegrino l’intesa sul nucleare.

Parlando a giornalisti in visita al reattore ad acqua pesante di Arak, Kamalvandi ha sostenuto che “l’Iran ha bisogno di uranio arricchito al 5% per la sua centrale nucleare di Bushehr”, porto nel sud del Paese sul Golfo Persico, “e fino al 20% per un reattore a Teheran a scopi di ricerca scientifica”. Si va dunque oltre i limiti dell’accordo, pur restando lontani dai livelli d’arricchimento indispensabili per un uso militare.

L’annuncio iraniano si accompagna a pressioni esercitate sui partner europei perché, da una parte, spingano Trump a tornare indietro – ma nessuno ci crede davvero, specie se lo showman presidente trova gente del suo calibro disposta ad assecondarlo – e, dall’altra, adottino strumenti già approntati per evitare le sanzioni. “L’Ue ha un tempo limitato per assumersi le sue responsabilità, altrimenti l’intesa crollerà”, dice Rohani, ricevendo il nuovo ambasciatore francese Philippe Thiébaud. “Imporre sanzioni su beni come le medicine e il cibo è disumano e mostra che la guerra economica degli Stati Uniti è contro ogni singolo cittadino iraniano”.

L’escalation delle tensioni, innescata da Washington e incoraggiata da Arabia saudita e Israele, che chiede un immediato inasprimento delle sanzioni anti-Iran, accende gli oltranzismi iraniani. Ne sono una prova le dichiarazioni del capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, brigadiere generale Mohammad Bagheri: “Visto che l’Iran è un Paese potente, se dovesse deciderlo, potrebbe apertamente e completamente ostacolare le esportazioni di petrolio dal Golfo Persico; e per farlo non avrebbe bisogno di inganni o sotterfugi, al contrario dei terroristi americani e dei loro mercenari regionali e internazionali che vogliono destabilizzare il mondo”.

Parole che l’Amministrazione statunitense strumentalizza: il Pentagono studia un aumento di truppe nel Golfo e autorizza pattuglie aeree congiunte americano-saudite, mentre la Casa Bianca ricorre alla formula standard, “tutte le opzioni sono aperte”. Il Dipartimento di Stato rassicura: “Non cerchiamo la guerra con l’Iran”; e il Congresso studia mosse per arginare il presidente.

Riuniti a Lussemburgo, i ministri degli Esteri dell’Ue provano a essere concreti: vogliono evitare un’escalation militare e salvare l’intesa, senza sbilanciarsi in giudizi su quanto accaduto nel Golfo in assenza di prove. Solo Londra s’allinea con Washington. Mosca e Pechino difendono l’accordo (e stanno con Teheran).

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Giampiero Gramaglia, nato a Saluzzo (Cn) nel 1950, è un noto giornalista italiano. Svolge questa professione dal 1972, ha lavorato all'ANSA per ben trent'anni e attualmente continua a scrivere articoli per diverse testate giornalistiche.Puoi rimanere connesso con Giampiero Gramaglia su Twitter

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